Riparare il DNA

Da un mio articolo su ilsussidiario.net (link all’originale)

Anche se in questo periodo di pioggia ne sentiamo particolarmente la mancanza l’esposizione prolungata e senza protezioni alla luce del sole è alla base dello sviluppo dei tumori della pelle. Per fortuna il nostro corpo possiede una serie di sistemi in grado di riparare i danni al DNA causati dai raggi ultra-violetti (UV). Se però anche questi sistemi non funzionano, come nel caso di diverse malattie genetiche, allora la possibilità di sviluppare melanomi e altri tipi di tumore è assai elevata.
Un gruppo di ricercatori dell’Università degli Studi di Milano, coordinato da Marco Muzi Falconi e Paolo Plevani, ha individuato il meccanismo molecolare che sta alla base del processo di riparazione del DNA dai danni da raggi UV, soprattutto quando si tratta di danni particolarmente gravi o estesi. I risultati sono stati pubblicati dalla rivista Molecular Cell. Ne abbiamo parlato con uno degli autori, il professor Muzi Falconi. Ecco le risposte che ha dato a ilsussidiario.net

Professor Muzi-Falconi, quali sono gli effetti dei raggi UV sul DNA?

I raggi UV sono in grado di determinare delle mutazioni a livello del DNA. In presenza di un efficiente sistema di riparazione questi difetti vengono rimossi. Il problema insorge quando questi meccanismi non funzionano più e quindi il DNA comincia ad accumulare mutazioni che nel tempo possono portare allo sviluppo di tumori e altre patologie.

Esiste una patologia in particolare in cui il sistema di riparazione è danneggiato?

Si, tra le più famose vi è lo xeroderma pigmentoso, in cui pazienti sono così sensibili alla luce da essere costretti a vivere perennemente al buio per limitare il rischio di danni agli occhi e tumori della pelle. Poi vi è la sindrome di Cockayne, caratterizzata da invecchiamento precoce, e la tricotiodistrofia che provoca ritardo nello sviluppo.

Come funziona il meccanismo di riparo?

Quando le radiazioni UV sono limitate, un insieme di proteine interviene per individuare ed eliminare il DNA danneggiato. Questo viene sostituito successivamente con una nuova copia in modo da far sopravvivere la cellula. Se invece il livello di raggi UV assorbito è troppo elevato intervengono i checkpoint. Sono dei punti di controllo che, bloccando temporaneamente la possibilità della cellula di replicarsi, e quindi diffondere in più copie la mutazione, consentono ad essa di avere più tempo per riparare il danno. I checkpoint costituiscono una barriera contro la formazione dei tumori e il loro malfunzionamento è una caratteristica comune delle cellule tumorali.

Qual’è stato l’obbiettivo del vostro lavoro?

Abbiamo indagato in che modo una proteina, chiamata Exo1, sia in grado di individuare le lesioni più pericolose e soprattutto in che modo possa attivare i cosiddetti checkpoint descritti precedentemente.

Come si è articolata la ricerca?

Il lavoro è stato molto lungo; l’inizio del progetto infatti risale al 2003. Durante questi anni siamo andati a studiare i meccanismi di riparazione prima nelle cellule di lievito, che rappresentano un buon modello di studio, e poi in quelle umane. Nei precedenti studi abbiamo visto che le persone con xeroderma pigmentoso non erano in grado di attivare i checkpoint e quindi, oltre a non riparare il danno, accumulavano mutazioni. Nel lavoro attuale abbiamo voluto indagare quali fossero i principali responsabili del mancato riconoscimento del danno al DNA. Cercando tra le varie proteine coinvolte nel sistema di riparazione abbiamo individuato e analizzato l’attività di Exo1, responsabile dell’attivazione del checkpoint. In questo modo abbiamo dunque capito il complesso meccanismo molecolare con cui essa agisce.

Quali prospettive può aprire uno studio come il vostro?

Comprendere come lavorano nello specifico le proteine coinvolte nella riparazione dei danni è un passo avanti molto importante. Infatti ciò può aiutarci nella prospettiva di sviluppare applicazioni che potrebbero in futuro riguardare la prevenzione di varie patologie tra cui i tumori.

Crema abbronzante: tintarella genetica

Da un mio articolo su Corriere della Sera.it (Link all’originale)

MILANO – Lettini solari e ore sulla sdraio in riva al mare addio. Per avere una perfetta e naturale abbronzatura basterà spalmarsi di crema e aspettare che la melanina cominci a farsi vedere. Non con un autoabbronzante, ma agendo addirittura su un gene. Questa ipotesi, forse non così lontana dalla realtà, è frutto degli studi di un gruppo di ricerca guidato dal professor David Fisher del Massachusetts General Hospital. In un lavoro pubblicato dalla rivista Genes and Development il team del ricercatore statunitense, disattivando un particolare gene chiamato PDE-4D3, è riuscito a scurire la pelle degli animali sottoposti al test senza che fossero stati esposti al sole.

FATTORE MELANINA – La produzione di melanina, che noi ricolleghiamo al colorito dall’aspetto sano di chi si espone molto al sole, è in realtà un meccanismo di difesa, il rimedio naturale che il nostro corpo utilizza per difendersi dai danni provocati dalle radiazioni solari. Un ottimo sistema in grado di prevenire la formazione di tumori della pelle: studiarla è quindi di fondamentale importanza soprattutto per mettere a punto strategie di prevenzione.

LO STUDIO – La produzione di melanina è un processo che viene regolato da numerosi geni tra cui PDE-4D3. Esso è un enzima in grado di bloccare il meccanismo che porta alla produzione della preziosa sostanza protettiva. L’idea di Fisher è stata quella di disattivare tale gene per rimuovere così il blocco e produrre quindi più melanina. Lo studio è stato effettuato per ora nei topi. Attraverso la somministrazione di alcuni agenti chimici in grado di disattivare la funzione di PDE-4D3, i ricercatori sono riusciti a ottenere dopo soli cinque giorni un sorprendente aumento della pigmentazione della pelle degli animali rispetto a quelli non trattati. Tutto ciò senza mai averli esposti direttamente alla luce solare o sotto apposite lampade abbronzanti.

PREVENZIONE – Lo studio, pur essendo stato effettuato per ora sui topi, apre importanti prospettive anche per l’uomo. «L’obiettivo primario dell’indurre la produzione di melanina nell’uomo è la prevenzione del cancro della pelle, dal momento che tutte le forme più comuni di queste neoplasie sono associate all’esposizione ai raggi ultravioletti» dichiara David Fisher. Attivando dunque una maggior produzione di melanina la pelle risulterebbe più protetta e anche più abbronzata. La crema non c’è ancora, ma i risultati dello studio potrebbero aprire nuove prospettive per la ricerca. E un giorno, chissà, ci si potrà garantire una tintarella perfetta, proteggendo la pelle invece che mettendola a rischio.