Crema abbronzante: tintarella genetica

Da un mio articolo su Corriere della Sera.it (Link all’originale)

MILANO – Lettini solari e ore sulla sdraio in riva al mare addio. Per avere una perfetta e naturale abbronzatura basterà spalmarsi di crema e aspettare che la melanina cominci a farsi vedere. Non con un autoabbronzante, ma agendo addirittura su un gene. Questa ipotesi, forse non così lontana dalla realtà, è frutto degli studi di un gruppo di ricerca guidato dal professor David Fisher del Massachusetts General Hospital. In un lavoro pubblicato dalla rivista Genes and Development il team del ricercatore statunitense, disattivando un particolare gene chiamato PDE-4D3, è riuscito a scurire la pelle degli animali sottoposti al test senza che fossero stati esposti al sole.

FATTORE MELANINA – La produzione di melanina, che noi ricolleghiamo al colorito dall’aspetto sano di chi si espone molto al sole, è in realtà un meccanismo di difesa, il rimedio naturale che il nostro corpo utilizza per difendersi dai danni provocati dalle radiazioni solari. Un ottimo sistema in grado di prevenire la formazione di tumori della pelle: studiarla è quindi di fondamentale importanza soprattutto per mettere a punto strategie di prevenzione.

LO STUDIO – La produzione di melanina è un processo che viene regolato da numerosi geni tra cui PDE-4D3. Esso è un enzima in grado di bloccare il meccanismo che porta alla produzione della preziosa sostanza protettiva. L’idea di Fisher è stata quella di disattivare tale gene per rimuovere così il blocco e produrre quindi più melanina. Lo studio è stato effettuato per ora nei topi. Attraverso la somministrazione di alcuni agenti chimici in grado di disattivare la funzione di PDE-4D3, i ricercatori sono riusciti a ottenere dopo soli cinque giorni un sorprendente aumento della pigmentazione della pelle degli animali rispetto a quelli non trattati. Tutto ciò senza mai averli esposti direttamente alla luce solare o sotto apposite lampade abbronzanti.

PREVENZIONE – Lo studio, pur essendo stato effettuato per ora sui topi, apre importanti prospettive anche per l’uomo. «L’obiettivo primario dell’indurre la produzione di melanina nell’uomo è la prevenzione del cancro della pelle, dal momento che tutte le forme più comuni di queste neoplasie sono associate all’esposizione ai raggi ultravioletti» dichiara David Fisher. Attivando dunque una maggior produzione di melanina la pelle risulterebbe più protetta e anche più abbronzata. La crema non c’è ancora, ma i risultati dello studio potrebbero aprire nuove prospettive per la ricerca. E un giorno, chissà, ci si potrà garantire una tintarella perfetta, proteggendo la pelle invece che mettendola a rischio.

Cancro al colon: diagnosi precoce più vicina

Da un mio articolo su ilsussidiario.net (link all’articolo originale)

Fluorescent long DNA: è questo il nome del nuovo test che potrebbe rivoluzionare la diagnosi precoce dei tumori al colon. A mettere a punto la tecnica sono stati i ricercatori italiani dell’IRST, l’Istituto Scientifico Romagnolo per lo Studio e la Cura dei Tumori; l’istituto, interamente dedicato alla cura, alla ricerca clinica, biologica e traslazionale e alla formazione in campo oncologico, è operativo dal 2007 all’interno delle strutture dell’ex Ospedale Civile di Meldola (FC) a partire da un’alleanza pubblico-privato tra enti non profit. I risultati dell’efficacia del test sono stati pubblicati dalla rivista Cancer Epidemiology, Biomarkers and Prevention.

Il tumore del colon rappresenta oggi la seconda causa di morte per cancro al mondo. Proprio per il lento progredire della malattia, una diagnosi eseguita il più precocemente possibile aumenterebbe di molto la possibilità di sopravvivenza a questo tipo di cancro. «Attualmente la metodica più utilizzata per la diagnosi precoce del tumore al colon è quella che prevede la ricerca di sangue occulto nelle feci» spiega Daniele Calistri, uno degli autori dello studio.

Questo test però presenta ancora alcuni problemi dovuti all’incertezza del risultato in termini di falsi negativi, ovvero persone che nonostante risultino negative stanno sviluppando la malattia. Il tumore al colon infatti ha la caratteristica di sanguinare ad intermittenza e, soprattutto nelle fasi più precoci del suo sviluppo, questo fenomeno può essere assente e quindi non individuabile attraverso le analisi. Proprio per questa ragione si è alla ricerca di un test più affidabile per lo screening sulla popolazione.

L’analisi è stata condotta ricercando il DNA presente nelle feci dei pazienti. Le cellule che normalmente sono contenute al loro interno sono generalmente cellule morte che presentano del DNA frammentato. Al contrario, in caso di lesioni o tumori, l’intestino rilascia delle cellule vive che come tali possiedono un DNA più integro di quelle morte.

«Analizzando la quantità e il grado di frammentazione del DNA delle cellule presenti nelle feci -continua Calistri- è possibile valutare la presenza o meno di un eventuale tumore». Gli studi che hanno dimostrato l’innovativa efficacia del test sono stati effettuati in persone positive al test del sangue occulto (il cosiddetto test Fobt): l’indagine è stata condotta su un’ampia serie di pazienti con quelle caratteristiche reclutati nell’ambito del programma di screening in corso presso l’Unità oncologica di prevenzione dell’ospedale Morgagni di Forlì, per gli individui di età compresa tra 50 e 69 anni.

Lo scopo ultimo della nuova metodologia di screening ideata dai ricercatori italiani è quella di sostituire l’attuale test d’indagine per arrivare ad individuare per tempo le persone malate sin dai primi stadi dello sviluppo tumorale. «Dato che la diagnosi definitiva deve però comunque essere effettuata tramite colonscopia -conclude Calistri-, la maggior accuratezza diagnostica della nuova metodica permetterebbe di diminuire il ricorso a questa tecnica invasiva e di diminuire i casi di falsi negativi».

Cosa c’è di vero sul cuore artificiale e sulle staminali?

Un mio articolo pubblicato su ilsussidiario.net :

La scorsa settimana, quella che ha preceduto i Nobel, è stata segnata da due importanti notizie di carattere medico scientifico. La prima, quella dell’impianto di un cuore artificiale in un giovane di Roma, ha offuscato la seconda, quella sulla presunta scoperta di un nuovo metodo per produrre cellule staminali. Ma andiamo con ordine.

Giornali e televisioni hanno riportato la notizia dell’avvenuto trapianto di un cuore totalmente artificiale in un ragazzo di 15 anni. Lo stupore per l’intervento è stato grande tanto che il ministro della Sanità Ferruccio Fazio si è complimentato per la straordinaria operazione. La notizia in quanto tale sarebbe straordinaria se non fosse che lo strumento impiantanto nel ragazzo non è un cuore artificiale, come in molti credono.

Basta approfondire la notizia per capire che la tecnica utilizzata è nota sin dal 2000. Come ha dichiarato il cardiochirurgo Mario Viganò al quotidiano La Stampa, «si parla spesso di cuore artificiale ma più correttamente si tratta di assistenza ventricolare». La tecnologia impiantata nel ragazzo di Roma è in realtà una turbina, innestata nel suo vero cuore, che funge da pompa idraulica. Non si tratta dunque di un cuore nuovo totalmente artificiale ma di un supporto, da ricaricare ogni giorno, applicato all’interno del cuore stesso.

In Italia sono già state impiantate negli adulti circa 50 turbine di questo genere. L’importanza della notizia dunque non è nella rivoluzionaria tecnica ma quanto nel fatto che si tratta del primo trapianto del genere che avviene in un ragazzo di 15 anni. La notizia dell’intervento, come detto in apertura di articolo, ha fatto passare in secondo piano quella sulle staminali che, se confermata, potrebbe rivoluzionare la ricerca e la sperimentazione di queste cellule superando una volta per tutte le problematiche di natura etica e tecnica.

L’autore della scoperta è il professor Derrick Rossi, da anni impegnato nel campo della produzione di cellule staminali. Nella ricerca appena pubblicata dalla rivista Cell Stem Cell, Rossi sembra aver individuato una nuova ed efficiente modalità che consentirebbe la produzione di cellule con caratteristiche staminali a partire da cellule adulte differenziate. Ciò permetterebbe dunque la produzione di cellule staminali senza dover necessariamente distruggere un embrione, unica via al momento per ottenere staminali embrionali.

Agli occhi dei più esperti questa potrebbe sembrare una non notizia. Già in passato, più precisamente nel 2006, lo scienziato giapponese Yamanaka era riuscito a ottenere qualcosa di simile. Dove sta allora la news? Per trasformare una cellula adulta in una con caratteristiche staminali bisogna necessariamente riprogrammare il DNA della cellula in questione. Il processo può essere paragonato a quello utilizzato per installare un programma sul computer.

Dall’esterno è necessario fornire dei geni che, inseriti nella cellula, ne modifichino le caratteristiche in modo da farla tornare indietro nel tempo. Una sorta di “formattazione”. Per fare ciò in passato Yamanaka ha utilizzato come navetta di trasporto dei virus. Peccato però che la tecnica comporti alti rischi che nel peggiore dei casi si traducono in una comparsa di tumore a partire dalle cellule modificate.

Il professor Rossi, ed ecco la notizia, sembra aver aggirato questo problema evitando di usare i virus come vettore di trasporto del DNA utile alla riprogrammazione. L’approccio utilizzato infatti è completamente differente. Normalmente il DNA di una cellula contiene le informazioni necessarie a produrre delle molecole chiamate mRNA, indispensabili alla produzione di tutte le proteine e quindi necessarie anche nella riprogrammazione della cellula.

L’idea del professor Rossi è stata quella di iniettare direttamente nelle cellule adulte dell’mRNA, opportunamente trattato, evitando così di utilizzare vettori virali in grado di trasportare i geni della riprogrammazione. Stando ai risultati pubblicati questa tecnica avrebbe centrato l’obbiettivo di riprogrammazione da adulte a staminali con un’altissima efficienza. Se ciò fosse confermato, l’innovativa metodica porrebbe fine a quei problemi di natura tecnica e bioetica legati alla produzione e all’utilizzo delle cellule staminali.

De Bortoli e i mulini a vento

Oggi mi sono collegato spesso al sito del Corriere della Sera. Distrattamente continuavo a chiedermi il perchè riportasse notizie vecchie e non venisse aggiornato dalla mezzanotte. Dopo una breve ricerca ho letto che sia il sito che l’edizione cartacea staranno ferme per due giorni causa sciopero. I motivi sono abbastanza chiari: si sciopera per protestare contro una lettera del direttore Ferruccio De Bortoli alla redazione. Motivo della lettera? Riassumendo si può dire che il direttore si lamenta per la scarsa collaborazione della redazione nel voler stare al passo con i tempi. In particolare critica i giornalisti che sono poco inclini ad applicare le nuovetecnologie, ad esempio lo sviluppo del lavoro trasversale multimediale e delle applicazioni per l’iPad.

In particolare:
“Non è più accettabile che parte della redazione non lavori per il web o che si pretenda per questo una speciale remunerazione. Non è più accettabile che perduri la norma che prevede il consenso dell’interessato a ogni spostamento, a parità di mansione”, non è più accettabile che i colleghi delle testate locali non possano scrivere per l’edizione nazionale, mentre lo possono tranquillamente fare professionisti con contratti magari per giornali concorrenti. Non è più accettabile l’atteggiamento, di sufficienza e sospetto, con cui parte della redazione ha accolto l’affermazione e il successo della web tv. Non è più accettabile, e nemmeno possibile, che l’edizione iPad non preveda il contributo di alcun giornalista professionista dell’edizione cartacea del Corriere della Sera. Non è più accettabile la riluttanza con la quale si accolgono programmi di formazione alle nuove tecnologie”.

e ancora… :
“Non è più accettabile, anzi è preoccupante, il muro che è stato eretto nei confronti del coinvolgimento di giovani colleghi. Non è più accettabile una visione così gretta e corporativa di una professione che ogni giorno fa le pulci, e giustamente, alle inefficienze e alle inadeguatezze di tutto il resto del mondo dell’impresa e del lavoro”.

Che dire? Negli Stati Uniti hanno chiuso storiche testate e per stare a galla e ripartire è richiesto un cambio di mentalità e un nuovo modo di fare giornalismo. A tal proposito vi consiglio il libro di Massimo Gaggi e Marco Bardazzi dal titolo “L’Ultima Notizia: dalla crisi degli imperi di carta al paradosso dell’era di vetro“. Un saggio che affronta, tra le altre cose, l’evoluzione dei modi di fare giornalismo. Un giornalismo che dovrà tenere conto di contenuti, credibilità e creatività, ma che dovrà sommare i concetti di Condivisione, comunità, conversazione. Il futuro dei giornali probabilmente sarà all’insegna di contenuti che, oltre allo scritto classico, prevedano l’utilizzo di grafici, video e audio.

Saranno pronti i giornalisti di oggi a cambiare pelle? De Bortoli sta combattendo contro i mulini a vento?