Categorie
archivio

PSA: un esame quasi sempre poco utile. Intervista a Richard Ablin

Quasi sempre uno scienziato è sempre fiero delle scoperte che fa. “Quasi” perché questo non è il caso di Richard Ablin –professore di patologia all’University of Arizona College of Medicine-, scopritore del PSA, l’antigene prostata specifico. «Scoprirlo è stato il peggior errore della mia vita» dichiara senza troppi giri di parole. Un peso –involontario- sulla coscienza ben spiegato nel libro “The great prostate hoax” -il grande inganno sulla prostata- pubblicato negli Stati Uniti nel 2014 e in arrivo oggi nelle librerie italiane. Un testo nel quale Ablin chiede scusa ad un immaginario John, 50enne che si è visto rovinata la vita dal giorno in cui si sottopose al test. Il messaggio che emerge dal testo è riassumibile in poche righe: il PSA può far scoprire –casualmente- un cancro della prostata prima che si manifesti con qualsiasi disturbo ma, nella maggior parte dei casi, si tratta di tumori indolenti che non si sarebbero mai manifestati in vita. Risultato? Rimozione –inutile- della prostata con il rischio di restare impotenti e incontinenti già a 50 anni. Un repentino passaggio da una vita in salute ad un’esistenza fortemente condizionata.

La prima volta che Ablin isola il PSA è nel 1970. Tecnicamente si tratta di un enzima prodotto dalla prostata che ha come funzione quella di mantenere fluido il liquido seminale. Ablin non chiama il PSA “antigene specifico del cancro prostatico” perché semplicemente non è un indicatore di cancro. Il PSA è infatti sempre presente e rilevabile a livello sanguigno ma è un indicatore sullo stato generale di salute della prostata. Ablin, per spiegare il concetto, non usa mezzi termini: «se un camionista dopo aver guidato per le montagne del Wyoming si fermasse alla sera in una clinica per fare un esame la mattina successiva, il tragitto pieno di scossoni potrebbe avergli innalzato il valore. Lo stesso potrebbe derivare da una condizione relativamente comune conosciuta come iperplasia prostatica benigna. La lista dei colpevoli continua ma il risultato per il test del PSA rimane lo stesso: il livello può essere condizionato da diversi stimoli e i numeri non necessariamente indicano il cancro».

Eppure, nonostante queste evidenze, a partire dal 1994 la FDA approva l’esame del dosaggio quale test per la diagnosi precoce del cancro della prostata. Nell’approvarlo l’ente statunitense ha fatto affidamento su uno studio che ha mostrato che il test è in grado di rilevare il 3,8 per cento dei tumori della prostata, un tasso migliore rispetto al metodo standard dell’ispezione rettale. L’inizio della fine, secondo Ablin. Attenzione ad interpretare il messaggio: per molte forme di cancro giocare d’anticipo, ovvero arrivare ad una diagnosi precoce, è fondamentale per superare la malattia. In molti altri casi invece anticipare la diagnosi, attraverso campagne di screening a tappeto, non produce vantaggi apprezzabili. Anzi, comporta un rischio molto concreto per la salute detto “sovradiagnosi”. «Quello alla prostata –spiega Ablin- è uno dei tumori più diffusi nell’uomo ma si è dimostrato essere, in molti casi, una malattia relativamente benigna con un’evoluzione molto lenta. Evoluzione che non è assolutamente prevedibile con il dosaggio del PSA».
Di fronte ad un valore elevato inizia un effetto domino fatto di biopsie, diagnosi di tumore e proposta di rimozione chirurgica radicale della ghiandola. Operazione che può lasciare pesanti segni –incontinenza urinaria ed impotenza- e che spesso non risulta essere necessaria in quanto il tumore cresce talmente lento che la persona morirà per altre cause. Ed è proprio questo il punto: «dopo decenni di utilizzo del PSA quale metodo di screening i dati dicono che la mortalità per tumore alla prostata non differisce significativamente tra chi si sottopone al test e chi no. I risultati confermano che se lo screening evita casualmente a qualcuno di morire di cancro della prostata, per ogni morte evitata da trenta a quaranta uomini hanno la vita rovinata da interventi inutili. Ecco perché utilizzarlo come metodo di screening è una scelta folle dettata dal solo interesse economico. Più test, più operazioni, più robot venduti, più farmaci utilizzati per l’impotenza» conclude Ablin.

Fortunatamente però –dopo tante denunce pubbliche- qualcosa sta cambiando. Dopo anni di utilizzo indiscriminato tra gli urologi sta crescendo sempre di più la consapevolezza che il PSA andrebbe utilizzato –nell’attesa di trovare un vero marcatore specifico- per aiutare i medici a trattare gli uomini già malati di cancro della prostata e per individuare le ricorrenze del cancro dopo il trattamento. In aggiunta può essere utilizzato quando c’è un forte sospetto di familiarità per la malattia. Sul quando e come intervenire l’ultimo studio pubblicato dal NEJM a metà settembre parla da solo: nei casi di tumore in fase iniziale il tasso di sopravvivenza a 10 anni è lo stesso, 99%, sia che si venga operati, che sottoposti a radioterapia o ad una sorveglianza attiva.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *