Parkinson: il segreto è nell’appendice

Cervello e intestino, l’uno influenza l’altro. Nessuno però avrebbe mai pensato che una porzione di quest’ultimo -per anni considerata inutile o buona solo a creare problemi quando si infiamma- fosse addirittura in grado di innescare una malattia neurodegenerativa. Uno studio pubblicato su Science Translational Medicine -opera degli scienziati del Van Andel Research Institute (Stati Uniti)- ha dimostrato che le persone a cui è stata rimossa l’appendice in giovane età hanno un rischio di sviluppare il morbo di Parkinson ridotto del 20%. Un risultato curioso e interpretabile in molti modi che in realtà, ad un’analisi approfondita, contribuisce a decodificare il contributo dei tanti attori in gioco nella genesi della malattia.

Senza appendicite: -20% di probabilità di Parkinson

Per arrivare al risultato gli scienziati statunitensi hanno analizzato i dati del Swedish National Patient Registry, l’archivio svedese che monitora i ricoveri ospedalieri e le operazioni chirurgiche dell’intera popolazione. In particolare si sono concentrati su quei pazienti che hanno subito un’appendicectomia, ovvero la rimozione dell’appendice, dal 1964 ad oggi. Una mole di dati impressionante -52 anni di osservazione- incrociata con le diagnosi di Parkinson. Dalle analisi è emerso che negli individui a cui non è stata rimossa l’appendicite le probabilità di sviluppare la malattia erano maggiori del 20%. Non solo, lo studio ha anche fornito un altro dato a supporto del presunto effetto protettivo: in caso di Parkinson l’esordio della malattia -se sottoposti ad appendicectomia- è ritardato di quasi 4 anni.

Meno rischi solo se si vive in città

Analizzando però in maniera più approfondita la distribuzione delle diagnosi di Parkinson -829 i casi registrati- i ricercatori hanno scoperto che l’effetto protettivo è tale solo in quelle persone che vivono in grandi centri urbani e non in aree rurali. Un particolare in linea con i fattori di rischio ad oggi conosciuti per la malattia, ovvero l’abitare in aree rurali, essere esposti a pesticidi all’uso di acqua proveniente dai pozzi.

Tutto inizia dall’intestino

Bastano dunque questi dati per affermare che la rimozione dell’appendice riduce il rischio di Parkinson? Tutt’altro. Lo studio però aggiunge un dato particolarmente importante. Gli scienziati, analizzando la composizione proteica delle appendici di individui sani e affetti dalla malattia neurodegenerativa, hanno scoperto che in entrambi i casi sono presenti aggregati di alfa-sinucleina, una proteina che nei pazienti con Parkinson si accumula a livello cerebrale e che è responsabile del danno ai neuroni tipico della malattia. Nei malati però la presenza di alfa-sinucleina nella forma tossica è presente in quantità 4,5 volte maggiore rispetto agli individui sani. “Questa osservazione -spiega Bryan Killinger, uno degli autori dello studio- ci suggerisce che l’appendice rappresenta un centro di accumulo degli aggregati di alfa-sinucleina. La presenza di tale forma sia negli individui sani che in quelli malati significa però che ci deve essere un secondo fattore in grado di scatenare la malattia”. Fattore che potrebbe essere proprio quello ambientale anche alla luce della differenza dei risultati ottenuti tra individui che abitano in città e in zone rurali.

L’autostrada del nervo vago

Ma come è però possibile che una parte del corpo così lontana riesca a “inviare” l’alfa-sinucleina al cervello? Secondo gli autori dello studio il responsabile sarebbe il nervo vago. Non è un caso che una delle prime aree in cui si osserva un accumulo della proteina nei pazienti con Parkinson è proprio la parte terminale di questo fascio nervoso che collega l’intestino al cervello. E non è nemmeno un’altra casualità -esistono studi a riguardo- il fatto che la recisione del nervo vago sia associata ad un minor rischio di malattia.

Una malattia multifattoriale

Attenzione però a trarre facili conclusioni: ricorrere al bisturi per diminuire il rischio di Parkinson non è affatto una strada da seguire. “Rimuovere quel tratto di intestino -spiega Killinger- non azzera il rischio. L’appendice può essere uno dei luoghi dove la malattia ha inizio ma non è il solo”. Ma proprio per i dati sempre più consistenti sul legame tra intestino e cervello nello sviluppo della malattia -il caso vuole che James Parkinson, il primo che descrisse la malattia, sia anche il primo medico inglese ad aver documentato un caso di appendicite- gli autori dello studio propongono una ricetta in chiave preventiva: farmaci diretti contro l’alfasinucleina, oggi studiati per arrivare direttamente al cervello, potrebbero essere sviluppati e somministrati per via orale nel tentativo di mettere fuori gioco la proteina prima che raggiunga il cervello. La prima prevenzione farmacologica di una malattia neurodegenerativa.

(articolo pubblicato il 27 novembre 2018 su La Stampa)

Sono 129 i valori del sangue alterati dal lavoro su turni

129. E’ il numero di proteine circolanti nel sangue i cui valori risultano anomali quando si lavora di notte. Alterazioni importanti che espongono la persona ad un aumentato rischio di sviluppare diabete e obesità. Ad affermarlo è uno studio pubblicato dalla rivista PNAS ad opera dei ricercatori della University of Colorado (Stati Uniti).

Cambiare orari altera l’espressione di 129 proteine

Per arrivare a questo risultato gli scienziati statunitensi hanno sottoposto sei giovani adulti ad una settimana di repentino cambio di “orari” quotidiani per simulare ciò che avviene quando si lavora su turni o si viaggia da un continente all’altro. La peculiarità dello studio però è stata quella di valutare ogni 4 ore, grazie ad un prelievo sanguigno, i livelli di oltre 1100 proteine la cui produzione è dipendente dai ritmi circadiani.

Dalle analisi è emerso che l’alterato ritmo sonno-veglia tipico di chi svolge un lavoro su turni porta ad un’anomalia dell’espressione di 129 proteine. Da un punto di vista temporale l’alterazione più evidente è quella dell’orario in cui vengono prodotte e secrete nel sangue. Ciò a cui hanno assistito i ricercatori è stata una completa inversione dei tempi di produzione. Le proteine che normalmente raggiungevano nelle ore diurne il picco massimo a livello plasmatico in realtà erano maggiormente secrete nella notte e viceversa.

Diabete e chili di troppo: ecco perché chi lavora su turni rischia di più

Tra queste ad essere alterata maggiormente è il glucagone, l’ormone prodotto dal pancreas per stimolare il rilascio di glucosio dalle cellule al circolo sanguigno. Quando i volontari restavano svegli la notte i livelli dell’ormone raggiungevano il picco massimo nelle ore notturne anziché diurne. Non solo, il picco è risultato mediante più alto della norma e questo –secondo i ricercatori- rappresenta la prova del perché i lavoratori che fanno turni la notte sono maggiormente predisposti a sviluppare il diabete.

Ma c’è di più: un’altra proteina ad essere particolarmente alterata dal “lavoro notturno” è FGF19. Diversi studi in modelli animali hanno mostrato che questo fattore di crescita è in grado di stimolare il consumo energetico e che dunque una sua maggior produzione è responsabile dell’aumentato consumo di calorie. Dalle analisi è emersa una minor produzione di FGF19 negli individui sottoposti al test. Un risultato in linea con il dato che vede una diminuzione del 10% circa di calorie consumate da chi lavora di notte rispetto a chi lavora seguendo il normale ritmo sonno-veglia.

“Le evidenze emerse da questo lavoro –spiega Kenneth Wright, direttore del Laboratorio Sonno e Cronobiologia della University of Colorado – suggeriscono che quando siamo soggetti a jet-lag o effettuiamo una turnazione lavorativa notturna di un paio di giorni, andiamo ad alterare molto rapidamente la nostra fisiologia in una maniera che, se persistente, può diventare dannosa per la salute”.

Il lavoro notturno è un fattore di rischio

Ma se lo studio dei ricercatori statunitensi è stato il primo ad indagare quali sono le principali anomalie nella produzione di proteine, che il lavoro su turni esponga ad un aumentato rischio di malattie è ormai cosa nota. Già dal 2007 l’International Agency for Research on Cancer (IARC) di Lione ha inserito il “lavoro su turni che comporta un’alterazione dei ritmi circadiani” fra i possibili fattori che agevolano lo sviluppo di alcune forme tumorali.

Non solo, in un imponente studio del 2015 –che ha coinvolto 75 mila infermiere osservate per 22 anni- pubblicato sull’American Journal of Preventive Medicine, è emerso che le donne che avevano lavorato con turni per un periodo dai 6 ai 14 anni, avevano un rischio di morte per malattie cardiovascolari maggiore del 19%. Rischio che arrivava al 23% per periodi lavorativi più lunghi di 15 anni.

Per minimizzare gli effetti di questa sorta di jet-lag esistono però alcuni piccoli accorgimenti: preferire rotazioni in senso orario piuttosto che antiorario, programmare turni il più possibile regolari e lasciare tra un turno e l’altro un tempo sufficiente al recupero delle ore di sonno e dalla fatica -evitando due turni nelle 24 ore- sono solo alcune delle strategie da adottare per ridurre l’impatto.

(Articolo originale pubblicato su La Stampa, 5 giugno 2018)

Trenord è l’uso sconsiderato dei social network

Il primo pensiero sul deragliamento del treno a Pioltello non può che andare alle vittime, ai feriti e alle loro famiglie. A bocce ferme però, oltre alle doverose analisi sulle cause, bisognerebbe cercare anche di discutere del cattivo gusto della comunicazione della tragedia da parte dell’azienda Trenord. Intendiamoci: il post è per le persone che si occupano di questo campo! Tutto nasce dal tweet partito dal profilo ufficiale della linea Novara-Milano-Treviglio

Un deragliamento con morti e feriti non si può definire “inconveniente tecnico“. Oltre ad essere di pessimo gusto il tweet è delle 8:09, un’ora dopo il disastro, quando già TUTTI i mezzi di informazione parlavano della vicenda con tanto di immagini.

Trenord, a bordo dei propri mezzi, invita i pendolari a rimanere sempre aggiornati tramite i canali Twitter dedicati alle varie linee, con l’App ufficiale e tramite il sito. Eppure i canali Twitter sembrano il deserto. Sulla mia direttrice, la Novara-Saronno-Milano compaiono 3 tweet da ottobre ad oggi. Eppure i social -e in particolare Twitter- sono uno strumento fondamentale per la comunicazione e in particolare per le situazioni di emergenza. Un mezzo immediato per cercare di capire, ancor prima dei siti di informazione, cosa sta accadendo.

Chi si occupa di comunicazione sa bene quanto sia fondamentale la “crisis management“, la gestione della crisi.  Oggi aziende e istituzioni non possono prescindere dall’integrare queste piattaforme social nelle proprie strategie di comunicazione. Per Trenord questo è sicuramente l’ultimo dei problemi. Allora un consiglio: se non si è in grado di gestire un account social meglio non averlo. Risvegliarsi dal torpore con un tweet (in ritardo di un’ora) utilizzando anche un linguaggio discutibile è lo specchio della non gestione dell’azienda. Probabilmente chi ha realizzato il tweet non sapeva minimamente come comportarsi per assenza di una linea da parte di Trenord.

p.s non venitemi a dire che è una strategia di comunicazione per evitare la folla di “curiosi” sul luogo dell’incidente. Il flusso di notizie non lo si può arginare.

p.s 2: come scritto all’inizio il post è per chi si occupa di comunicazione. Lo dico per prevenire i commenti tipo “in questo momento non facciamo polemiche inutili”. 

 

 

 

Epatite C: eradicazione possibile per il 2030 grazie ai nuovi farmaci antivirali

Nella storia della medicina una delle modalità vincenti per eradicare una malattia infettiva è la prevenzione del contagio attraverso l’utilizzo di un vaccino. L’epatite C invece rappresenta un’eccezione: grazie ai nuovi farmaci antivirali ad azione diretta il virus può essere eliminato nella maggior parte dei casi. Un successo mai registrato prima nella storia della malattia che ha indotto l’Organizzazione Mondiale della Sanità -come è stato più volte ribadito all’International Liver Congress da poco conclusosi ad Amsterdam- a dichiarare l’obiettivo eradicazione entro il 2030. Un traguardo ambizioso ma possibile vista la straordinaria potenza delle nuove molecole sbarcate sul mercato.

Epatite C: non è solo questione di fegato

«L’epatite C -spiega la professoressa Gloria Taliani, Ordinario di malattie infettive presso l’Università La Sapienza di Roma- è una malattia del fegato causata dal virus HCV. La sua presenza è in grado di scatenare una reazione immunitaria che, a lungo termine, danneggia in maniera irreversibile l’organo portando a cirrosi e carcinoma epatico». Nel nostro Paese si stima che il 60% dei mille e più trapianti di fegato che si effettuano ogni anno siano causati dal virus C. Attenzione però a pensare che la malattia sia esclusiva del fegato. «L’epatite C -continua l’esperta- è una malattia sistemica a tutti gli effetti e chi ne soffre con il tempo va incontro a diabete, insufficienza renale e malattie cardiovascolari». Ecco perché eliminare il virus è di fondamentale importanza per lo stato di salute di chi è affetto dalla patologia.

Oggi con gli antivirali diretti il virus si elimina nel 97% dei casi

Sino a pochi anni fa la cura principe per l’epatite C era rappresentata dalla somministrazione di interferone e ribavirina, molecole che avevano successo in meno della metà dei casi e che si associavano a pesanti effetti collaterali che spesso costringevano medico e malato a sospendere la terapia. Oggi invece la situazione è radicalmente cambiata: «grazie allo sviluppo di antivirali ad azione diretta capaci di agire sui molteplici meccanismi che il virus mette in atto per replicarsi, è possibile curare definitivamente la malattia nella quasi totalità dei casi. Percentuali di successo, ottenibili in sole 12 settimane e in alcuni casi anche in 8, che si aggirano mediamente intorno al 97%. Uno scenario impensabile sino a meno di dieci anni fa» spiega il professor Antonio Craxì, ordinario in gastroenterologia all’Università degli Studi di Palermo. Guarigioni che nei casi più gravi significa poter evitare di ricorrere al trapianto di fegato.

Efficacia degli antivirali dimostrata anche al di fuori degli studi clinici

Dopo un periodo relativamente breve di sperimentazione di queste nuove molecole oggi nel nostro Paese sono già diverse le formulazioni utili a trattare i malati al di fuori dei trials clinici. Tra le ultime approvate da AIFA c’è la combinazione elbasvir/grazoprevir (sviluppata da MSD). L’attesa sulla bontà di queste due molecole era grande poiché gli ottimi risultati ottenuti nelle sperimentazioni non per forza sono garanzia di successo nella popolazione non selezionata. «Oggi -continua Craxì- i dati in real life relativi a questa combinazione ci dicono che gli antivirali funzionano e hanno percentuali di efficacia pari e in alcuni casi addirittura superiori rispetto agli studi registrativi». Un risultato importante, presentato al congresso olandese, in linea con altri dati real life di altre molecole.

Ora bisogna agire contro il genotipo 3

Attenzione però a cantare vittoria. Che fare nei rari casi in cui la persona fallisce la cura per lo sviluppo di una resistenza? Come trattare “varianti” del virus difficili da eliminare come ad esempio il genotipo 3? «In questi casi è fondamentale che la ricerca continui al fine di individuare nuovi possibili bersagli per mettere fuori gioco il virus» conclude Craxì. A tal proposito al congresso sono stati presentati alcuni importanti dati relativi alle molecole glecaprevir/pibrentasvir (sviluppate da AbbVie). La combinazione, attiva su tutti i genotipi virali di epatite C, si è dimostrata efficace in sole 8 settimane nel 95% dei casi degli individui affetti da genotipo 3. Cure dunque sempre più mirate e brevi. Un ulteriore passo avanti nella strada che porterà all’eradicazione dell’epatite C.

(Articolo pubblicato su La Stampa, 3 maggio 2017)

Meningite: sintomi, cause e vaccini da fare

Che cos’è la meningite?

La meningite è una infiammazione del rivestimento del sistema nervoso centrale (cervello e midollo) detto meninge. Esistono forme batteriche e virali, entrambe possono essere mortali. Le più temibili sono quelle di origine batterica provocate da pneumococco o da meningococco. Quest’ultimo esiste nelle varianti A,B,C,Y e W135. Tra i meningococchi più diffusi in Europa ci sono il B e il C. Quest’ultimo è il responsabile dei recenti casi in Toscana e delle studentesse milanesi.

Quali sono i sintomi?

Nella prima fase della malattia, ovvero nelle prime 7-10 ore, i sintomi sono quelli di una normale influenza. Dopo 10 ore le manifestazioni cominciano a caratterizzarsi: mal di testa molto intenso, rigidità del collo e febbre elevata. Nell’ultima fase, tra le 20 e le 36 ore, si presentano i sintomi gravi e tipici della meningite: perdita di conoscenza, convulsioni, macchie sul corpo.

Quante persone colpisce?

In Italia si registrano circa mille nuovi casi ogni anno e tre su 10 riportano esiti gravi e permanenti. Malgrado i progressi della medicina nella rianimazione e nell’assistenza al paziente, la mortalità non è diminuita e circa il 10% delle persone ammalate perde la vita. Il 50-60% guarisce completamente, mentre il 30% sopravvive riportando conseguenze anche molto gravi (15 bambini su 100 hanno complicanze così gravi da richiedere protesi acustiche o degli arti, cicatrici invalidanti, seri problemi alla vista, deficit neuro-motori) con un costo umano, sociale e sanitario altissimo. La maggior parte dei decessi porta la firma del meningococco C.

Come si trasmette?

Il contagio avviene per via aerea ma occorre un contatto molto ravvicinato. Il contagio può avvenire anche da un portatore sano del batterio, una condizione che in Italia riguarda circa il 15% della popolazione. Sembrerebbe essere questo il caso delle studentesse di Milano, venute a contatto in università con un individuo portatore sano.

Come si previene?

La prevenzione avviene tramite il vaccino. Ad oggi esistono vaccini specifici per la meningite da Haemophilus influenzae di tipo B, per quelle da pneumococco e per quelle da meningococco (A, B, C, Y, W 135). Dal 2005 il vaccino contro il meningococco di tipo C rientra tra i vaccini raccomandati e dunque gratuiti. Viene somministrato tra il dodicesimo e il quindicesimo mese di vita.

Chi si deve vaccinare?

Sebbene sia importante seguire l’apposito calendario è possibile vaccinarsi contro la meningite a qualsiasi età. Il vaccino è raccomandato soprattutto per i bambini e gli adolescenti. In questa fascia di età (14-25) l’incidenza della meningite è massima. Secondo gli esperti l’ideale sarebbe avere una copertura vaccinale dell’85%. In questo modo, attraverso l’immunità di gregge, si ridurrebbe drasticamente la circolazione del batterio