Un mio pezzo su La Stampa di oggi:
Pietro (chiamiamolo così, con un nome di fantasia) è un bimbo affetto da immunodeficienza «AdaScid». Si tratta di una rara malattia genetica, caratterizzata dall’assenza di difese dalle infezioni. La mutazione presente nel gene «Ada» lo rende incapace di sviluppare un sistema immunitario funzionante. Per lui, quindi, un banale raffreddore poteva essere fatale. Ora, però, non più. Tutto grazie alla ricerca: con la terapia genica la sua malattia è diventata curabile. Purtroppo, quella di Pietro è una delle poche storie di successo terapeutico. Sono ancora molte le persone colpite da malattie rare che attendono una cura. Oggi – e la scelta della data non potrebbe essere migliore, vista la rarità del 29 febbraio – è il loro momento: nel mondo si celebra la quinta «Giornata internazionale delle malattie rare». Leggi tutto
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Categoria: genetica
Ecco come ho trovato la colla della memoria
Un mio pezzo su La Stampa:
Un processo affascinante ma ancora troppo sconosciuto. Stiamo parlando della memoria, quella misteriosa funzione che ci consente di ricordare volti, fatti ed esperienze. Come si instaura e cosa succeda nel nostro cervello sono quesiti ai quali gli scienziati stanno tentando di rispondere da tempo. Uno di essi è la professoressa Cristina Alberini, neuroimmunologa italiana del Mount Sinai Medical Center di New York. In due differenti studi pubblicati sulle riviste Nature e Cell, tra le migliori in campo scientifico, è riuscita ad identificare due fattori chiave nella formazione della memoria a lungo termine. Risultati straordinari che aprono nuove e sino ad ora sconosciute prospettive per la diagnosi e cura delle malattie in cui la memoria viene compromessa.
«In passato il fenomeno della memoria è sempre stato indagato da un punto di vista psicologico. Le uniche conoscenze in campo biologico, datate anni sessanta, avevano evidenziato che bloccando la sintesi proteica la memoria a lungo termine veniva compromessa» spiega la dottoressa Alberini. Un dato importante ma troppo generale per chiarire il complicato meccanismo dei ricordi. A partire dagli anni ottanta invece, con lo sviluppo di nuove tecniche di indagine, gli studi si fecero sempre più dettagliati. Utilizzando animali modello come la Drosphila emerse che alcuni fattori trascrizionali chiamati C/EBP, peraltro conservati anche nei mammiferi, risultavano fondamentali nel mantenimento della memoria a lungo termine. A partire da questo dato è iniziata la lunga ricerca per individuare quali fossero le proteine target regolate da C/EBP. Una di esse è l’IGF2 (Insulin Growth Factor II). «Sapendo che C/EBP è connesso ai processi di memoria e che è in grado di regolare la produzione di IGF2, abbiamo voluto indagare se quest’ultimo fattore fosse implicato nel mantenimento della memoria a lungo termine» dichiara l’Alberini.
Per verificare questa ipotesi alcuni topi sono stati sottoposti ad una piccola scossa elettrica ogni qualvolta entravano in una stanza. Dopo l’evento traumatico il topo, avendo memorizzato l’esperienza negativa, non si dirigeva più in quel luogo. «Nel nostro esperimento abbiamo visto che nel periodo di memorizzazione dell’evento i valori di IGF2 a livello dell’ippocampo aumentavano significativamente. Sorprendentemente, rimuovendo questo fattore attraverso l’utilizzo di un inibitore, la memoria a lungo termine non si instaurava più e il topo tornava nella stanza dove subiva nuovamente lo shock elettrico. L’animale aveva perso la memoria e non era in grado di ricordare» spiega l’Alberini. Non solo, se invece IGF2 veniva somministrato durante lo shock in assenza dell’inibitore, la memoria risultava più forte e più duratura. Un risultato straordinario che è valso la pubblicazione su Nature.
Ma le novità non si fermano a IGF2. Nel secondo studio, apparso su Cell, è stato dimostrato per la prima volta in assoluto che un prodotto degli astrociti, una particolare forma cellulare presente nel cervello, svolge un ruolo fondamentale nel consolidamento della memoria a lungo termine. «Il risultato -spiega l’Alberini- è di particolare importanza perchè nel campo delle neuroscienze si è sempre dato spazio allo studio dei neuroni e poco a quello degli astrociti. Queste cellule, considerate in passato solo per la loro funzione trofica nei confronti dei neuroni, sono invece in grado di influenzare l’attività dei neuroni stessi». In particolare l’effetto sulla memoria è dato dal lattato, una molecola prodotta dal metabolismo del glicogeno e presente a livello cerebrale solamente in queste cellule. «L’idea di investigare il ruolo del lattato sulla memoria è nata dall’ipotesi che questa molecola, la cui funzione principale è di tipo energetico, possa venir sfruttata dai neuroni quando vi è una richiesta di energia come nel caso della formazione della memoria» dichiara l’Alberini. Analogamente al precedente esperimento è stato verificato che i valori di lattato aumentano significativamente durante il processo di memorizzazione. «Impedendo la produzione di lattato attraverso la somministrazione di un inibitore abbiamo visto che i topi non erano in grado di memorizzare più l’evento traumatico» spiega l’Alberini. Non solo, somministrando invece il lattato dall’esterno la memoria veniva recuperata. Dunque anche questa molecola, in aggiunta a IGF2, sembrerebbe giocare un ruolo fondamentale nella formazione della memoria a lungo termine.
«Più che conosciamo come funzionano i processi legati alla formazione della memoria e al suo mantenimento e più sappiamo dove guardare per cercare di curare quelle malattie come l’Alzhemier. Supponendo che i livelli di IGF2 e di lattato diminuiscano con il progredire dell’età e della malattia è plausibile pensare che il ripristino dei livelli possa prevenire il decadimento mentale. Non solo, loro alterazioni potrebbero essere anche sfruttate ai fini di una diagnosi precoce» conclude la dottoressa Alberini.
MEDICINA/ I “vecchi” farmaci che combattono i tumori
Un mio pezzo su ilsussidiario.net:
L’idea di utilizzare farmaci già presenti sul mercato per combattere i tumori è una strategia che emerge in sempre più numerosi studi internazionali. Ultimo in ordine di tempo è quello di Marco Foiani, professore di Biologia Molecolare presso l’Università degli Studi di Milano e group leader del campus IFOM-IEO di Milano. Lo studio è riuscito a dimostrare che l’utilizzo di una particolare categoria di farmaci, gli inibitori delle istone deacetilasi, è in grado di prevenire la formazione delle cellule cancerose. Un risultato che è valso la pubblicazione sulla rivista Nature, tra le più prestigiose in campo scientifico.
Sviluppare un farmaco è un processo lungo e costoso. Il primo passo del percorso è quello di comprendere il meccanismo fisiologico di un determinato evento. Solo successivamente sarà possibile pensare allo sviluppo di una molecola in grado di interferire con tale fenomeno.
Ultimamente, però, questo modo di operare sta lentamente cambiando. Uno dei più classici esempi è quello rappresentato dall’utilizzo degli anti-infiammatori. Se fino a diversi anni fa questa categoria di farmaci era utilizzata in caso di patologie infiammatorie, ora sempre più numerosi studi indicano che queste molecole possiedono anche un’attività anti-tumorale. Tenere dunque controllata l’infiammazione potrebbe essere una delle chiavi nella lotta ai tumori.
Nello studio del professor Foiani è stata valutata l’attività degli inibitori delle istone deacetilasi, già utilizzati in clinica per la cura di alcuni tipi di cancro. Queste molecole agiscono sulla struttura del DNA riducendone il grado di packaging, ovvero la compattazione del materiale genetico. In particolare, è stato individuato in che modo questi farmaci agiscano su alcuni processi fondamentali nel prevenire l’insorgenza di un tumore come la risposta a un danno al DNA, l’autofagia (capacità della cellula di auto-demolirsi) e l’acetilazione del DNA (processo attraverso il quale avviene il packaging del materiale genetico).
Rispetto a quello che si pensava in passato, ovvero che questi tre fenomeni fossero tutti indipendenti, lo studio dei ricercatori italiani ha evidenziato la loro stretta correlazione. Infatti, utilizzando questi farmaci, è stato possibile comprendere che questi tre processi cellulari sono profondamente uniti tra loro e che concorrono a prevenire la formazione di nuove cellule cancerose. Ciò è dovuto all’aumento del danno al DNA che rende la cellula in grado di andare in autofagia o in apoptosi, ovvero morte cellulare programmata, prima che diventi tumorale e cominci a crescere in maniera incontrollata.
La scoperta apre ora le porte a possibili applicazioni terapeutiche non così lontane dalla pratica clinica. Se da un lato questi farmaci sono utilizzati nella lotta ai tumori, l’aver individuato che sono in grado di influenzare altri processi come la risposta al danno al DNA e l’autofagia potrà portare a un’ottimizzazione delle terapie già esistenti, ovvero ad un utilizzo combinato degli inibitori delle istone deacetilasi con altri antitumorali.
Tra le possibili applicazioni vi è quella a supporto della radioterapia nel cancro alla prostata. Somministrando infatti questi farmaci, le cellule sarebbero maggiormente esposte al danno al DNA così da essere trattate con una minor dose di radiazioni. Tutto ciò eliminerebbe molti degli effetti collaterali legati a questa modalità d’intervento.
Carcinoma pancreatico: il tumore intelligente
Da un mio articolo su ilsussidiario.net (link all’articolo originale)
Ingannare il sistema immunitario per poter crescere senza nessun intoppo. È questa la strategia adottata da uno dei più subdoli tumori: il carcinoma pancreatico. A scoprirne il furbo meccanismo sono stati i ricercatori dell’Istituto Scientifico Universitario San Raffaele di Milano. Lo studio è stato da poco pubblicato sulla prestigiosa rivista Journal of Experimental Medicine.
Più si studiano i tumori e più si capisce quanto essi siano purtroppo “intelligenti” e versatili. Il tumore al pancreas è uno di questi. Una neoplasia che spesso non lascia scampo e che, oltre ad aver portato alla prematura scomparsa nel settembre 2006 dell’ex calciatore e dirigente nerazzurro Giacinto Facchetti, è ora tornata alla ribalta per aver colpito nuovamente Steve Jobs, fondatore del gruppo Apple.
Al momento il trattamento più efficace per la cura di questo tipo di tumore è la chirurgia. Sfortunatamente, però, sono pochissime le persone che, per ragione di quadro clinico, possono sottoporsi al delicato intervento. Dunque per sconfiggere il carcinoma al pancreas serve più che mai un’intensa attività di ricerca volta a chiarire i processi che portano queste cellule a essere aggressive e resistenti ai farmaci. In particolare, come per qualunque altro tipo di neoplasia, individuare le precise caratteristiche del tumore è di fondamentale importanza per sviluppare cure sempre più mirate.
Nello studio appena pubblicato, i ricercatori del San Raffaele hanno analizzato la relazione tra le cellule del tumore e quelle che lo circondano, ovvero le cellule del sistema immunitario e, più precisamente, i linfociti T. Essi sono di fondamentale importanza perché ogni volta che il nostro organismo viene attaccato da agenti esterni iniziano a produrre delle molecole (citochine) in grado di aumentare la risposta immunitaria e distruggere l’intruso.
Dalle indagini si è visto che nel tumore al pancreas questo meccanismo risulta purtroppo alterato. Invece che produrre le giuste molecole pro-infiammatorie, i linfociti T secernono citochine che favoriscono ulteriormente la progressione della malattia, rendendo di fatto inutile la risposta immunitaria. Citochine che nel corso della ricerca sono state già state identificate e che, grazie a ciò, rendono possibile lo sviluppo di terapie in grado di alterarne la funzione. Per alcune di queste molecole, infatti, sono già disponibili anticorpi capaci di bloccarne l’attività.
Come dichiara la dottoressa Maria Pia Protti, responsabile del gruppo di ricerca che ha effettuato lo studio, «questa ricerca rappresenta un passo in avanti sia nella conoscenza dei meccanismi biologici che rendono il carcinoma del pancreas un tumore particolarmente aggressivo, sia nell’identificazione di nuovi target terapeutici che consentiranno di mettere a punto, nei prossimi anni, nuove strategie terapeutiche».
Quanto dimostrato dal gruppo di ricerca milanese è solamente uno dei tanti esempi di “furbizia” dei tumori. Non più tardi del mese scorso, in un articolo pubblicato dalla rivistaPNAS, è stato dimostrato che uno dei tumori più diffusi a livello cerebrale, il glioblastoma, pur di sopravvivere è in grado di trasformare alcune delle proprie cellule in vasi sanguigni per potersi così autoalimentare.
Retinite pigmentosa: un collirio (in futuro) per curarla?
Da un mio articolo su Corriere.it (link all’originale)
MILANO – Non esiste ancora una cura per la retinite pigmentosa, una malattia su base ereditaria, una delle prime cause di cecità in età giovanile, ma qualche passo in avanti si sta facendo. Un gruppo di ricercatori italiani ha da poco pubblicato sulla rivista PNAS i risultati di uno studio che potrebbe contribuire a rallentare la progressione della malattia.
LA MALATTIA – La retinite pigmentosa è una malattia genetica che colpisce i fotorecettori presenti nella retina. Danni a queste cellule portano irreversibilmente alla perdita della vista. La morte di tali strutture avviene per apoptosi, una sorta di suicidio cellulare. Da tempo si pensa che la ceramide, una molecola presente normalmente a livello cellulare la cui alterata produzione è correlata anche in malattie come Parkinson e Alzheimer, sia coinvolta attivamente nella morte dei fotorecettori. Farmaci che vadano a interferire con il processo di produzione di questa molecola rappresentano dunque dei possibili bersagli nella lotta alla retinite pigmentosa.
LO STUDIO – Nella ricerca appena pubblicata, il gruppo italiano, coordinato da Enrica Stretto del CNR di Pisa e da Riccardo Ghidoni dell’Università degli Studi di Milano è riuscito a fermare nei topi il processo di morte cellulare agendo proprio sulla produzione di ceramide, con una sostanza chiamata myriocin, che già in passato aveva dimostrato di avere questa proprietà, ma mai era stata sperimentata in modelli animali affetti da retinite pigmentosa. «La somministrazione del farmaco ha diminuito la quantità di ceramide a livello della retina – spiega Ghidoni -. Non solo, la molecola è stata in grado di aumentare il grado di sopravvivenza dei fotorecettori conservandone persino la normale struttura e funzione». Proprio quest’ultima caratteristica, valutata attraverso l’elettroretinogramma, ha dimostrato che l’occhio dei topi con retinite pigmentosa era in grado di rispondere agli stimoli luminosi.
VIE DI SOMMINISTRAZIONE – Oltre all’eccellente risultato, lo studio è stato di notevole importanza poiché la modalità di somministrazione del farmaco è stata differente rispetto alle classiche tecniche utilizzate sino ad oggi, non attraverso un’iniezione intraoculare, come si è fatto con i vari approcci terapeutici provati finora, ma con un semplice collirio contenente nanoparticelle a base di myriocin. Una tecnica decisamente meno invasiva, che renderebbe il trattamento molto più fattibile e ben accettato qualora si rivelasse efficace e sicuro anche nell’uomo.
ALTRE SPERIMENTAZIONI – Dagli Stati Uniti è da poco giunta notizia che un risultato simile a quello di casa nostra è stato raggiunto da alcuni ricercatori della New York University. In un trial clinico che ha coinvolto circa 250 pazienti affetti da degenerazione maculare, attraverso la somministrazione di un farmaco derivato dalla vitamina A, chiamato fenretinide, i ricercatori sono riusciti ad arrestare la progressione della malattia. Il farmaco in questione, a differenza di quello utilizzato nello studio italiano, non andrebbe però a bloccare la degenerazione delle cellule malate ma bensì preserverebbe quelle non ancora colpite dalla malattia.