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No, non si tratta di un Nobel mancato (con buona pace del professor Gorio)

GORIO - 01-© Roveri (1)“Il Nobel mancato dell’italiano Gorio. Anticipò lo studio dei due vincitori”. E’ questo il titolo con cui il Corriere della Sera presenta la storia di Alfredo Gorio, farmacologo italiano che rivendica il premio assegnato quest’anno alla coppia di ricercatori che ha contribuito a sviluppare un farmaco, l’avermectina, per la cura delle malattie da parassiti. Come sono andate realmente le cose? Nobel “rubato” o eccesso di protagonismo?

Scrivo queste righe perché quell’articolo pubblicato da Corriere poteva essere il mio. Nei giorni immediatamente successivi all’assegnazione del premio ho avuto il piacere di parlare con Gorio: nell’intervista mi ha raccontato la sua versione dei fatti. Compito del giornalista però è quello di verificare che tutto combaci e per farlo occorre tempo. Inizialmente, preso dall’entusiasmo per quello che giudicavo un piccolo “scoop”, scrissi un articolo abbastanza sbilanciato. Il messaggio era chiaro: Gorio meritava il Nobel. Poi però, confrontandomi con alcuni colleghi (in particolare con caporedattore di Tuttoscienze de La Stampa Gabriele Beccaria e la sua fitta rete di esperti in materia) e facendo le dovute verifiche del caso, abbiamo deciso di darne notizia ridimensionando il tutto.

Mi spiego: dietro ogni premio Nobel per la medicina c’è un lavoro di anni. A vincerlo è il capo del laboratorio, quello che ci mette testa, idee e visione. Non da meno però è il contributo di tanti scienziati che passo dopo passo contribuiscono a raggiungere la meta. Uno di essi è stato Alfredo Gorio. A lui va il merito di aver isolato e caratterizzato il meccanismo d’azione dell’avermectina. Può bastare questo per reclamare il Nobel?

Ricostruiamo la vicenda: i due futuri Nobel nei primi screening effettuati avevano capito che il mix di sostanze prodotte dai microrganismi da loro isolati avevano caratteristiche paralizzanti e che potevano essere sfruttate a fini terapeutici. Per meglio capirne il funzionamento si rivolgono all’allora capo di Gorio, Antony Cerami, che lavorava già su alcuni argomenti simili ai due vincitori occupandosi di tripanosomi e altri parassiti del sangue. La Merck aveva fiutato l’affare e aveva messo i soldi per sviluppare il principio attivo in cambio naturalmente di avere i brevetti. Ching C. Wang, capo del laboratorio di microbiologia della Merck, dà i brodi di coltura a Gorio affinché ne studi le caratteristiche. Cosa significa tutto ciò?

La Merck, intuendo che uno dei principi attivi contenuti nei brodi di coltura doveva a naso interagire con la trasmissione neuromuscolare, commissiona lo studio a Gorio. Lo scienziato italiano in due settimane isola e capisce su quali recettori agisce la sostanza confermando di essere un eccellente farmacologo. Fin qui tutto fila liscio. Lo scienziato italiano con in mano i risultati si reca dalla Merck ed espone quanto scoperto. Come ha dichiarato al sottoscritto nell’intervista e in quella pubblicata da Corriere «l’azienda aveva inizialmente deciso di utilizzare l’avermectina principalmente per le malattie psichiatriche. Fui io ad indicare loro che invece era più appropriato un uso in veterinaria». Un’indicazione di cui però non possono esserci prove. Ma è questa affermazione il vero punto della discordia.

Personalmente –e sentendo il parere di altri esperti- mi riesce difficile credere a questa versione. Il composto da lui isolato, come Gorio stesso scrive nel suo unico articolo scientifico dedicato all’avermectina, appartiene alla categoria dei macrolidi, composti già conosciuti all’epoca per la loro attività antibiotica e quindi già utilizzati in medicina veterinaria. Ecco perché pare abbastanza curioso il fatto che la Merck non avesse già fiutato la possibile applicazione anche in campo veterinario. Non solo, altrimenti perché si sarebbero rivolti proprio a Cerami che si occupava di parassiti del sangue? Infine se Gorio avesse intuito o creduto nella reale efficacia del composto da lui isolato, perché non ha continuato a studiare e a pubblicare su quella molecola, proprio come hanno fatto i due Nobel? Perché, sapendo della sua presunta indicazione rivoluzionaria, Gorio si accorge oggi della scoperta che ha fatto?

Con un solo studio sull’argomento e un’informazione non verificabile («fui io a suggerire l’utilizzo in veterinaria») pretendere il Nobel mi pare un po’ troppo. Nell’articolo che avrei voluto pubblicare si raccontava tutta questa storia. Un articolo equilibrato senza nessun vittimismo. Un racconto di quanto ci sia anche un po’ di Italia nel Nobel di quest’anno. Un pezzo che raccontava anche che Gorio è rientrato in Italia nel 1979 occupandosi di tutt’altra ricerca -occupandosi di medicina rigenerativa- quasi ignaro del contributo che oggi è valso il Nobel per la Medicina. Il pezzo però non vedrà più la luce in quanto non approvato dal professore perché a suo parere non corrisponde a verità.

Dal canto mio penso che il giornalista non sia un megafono, ha il dovere di “amare la verità più di sé stesso”. Sentita una campana deve cercare di verificare tutte le informazioni raccolte per capire se tutto ciò corrisponde o è un racconto parziale. E’ questo quel che ho imparato da questa vicenda e ringrazio Gabriele Beccaria per avermi insegnato come svolgere questo lavoro. Ecco perché ho rinunciato a pubblicare una “notizia sensazionale”. Semplicemente perché non lo è mai stata.

Aggiunto alle ore 15:22 del 28/10/2015: http://dna.kdna.ucla.edu/parasite_course-old/personal%20stories/ccwang/index.aspx

A questo link potete trovare il racconto di Wang, il microbiologo della Merck. Spiega dell’idea di usare l’avermectina in veterinaria e cita Gorio per quanto riguarda la caratterizzazione del meccanismo d’azione. Nulla più. Eppure nemmeno Wang ha vinto il Nobel.

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La vita (e la morte) di quel bambino non è stata vana

siriaAd inizio giugno La Stampa decise di pubblicare un reportage fotografico di Bulent Kilic, fotografo turco della AFP, per raccontare tutto il dramma umano della popolazione siriana che scappa dalla furia dell’ISIS tentando di entrare alla frontiera turca. Foto di forte impatto che non sono nulla rispetto a quella che stiamo vedendo in queste ore con il cadavere di un bambino siriano di due anni in riva al mare sulla spiaggia di Kos.

Una foto che è un pugno nello stomaco. Rimanere indifferenti è impossibile. Chi ha un figlio –magari proprio di quell’età- non può non vivere un profondo disagio osservando quell’immagine. Personalmente l’ho vista per la prima volta su twitter nel bel mezzo di una conferenza stampa -in un bellissimo hotel di Londra- su quali farmaci è meglio utilizzare nella prevenzione delle malattie cardiovascolari. Uno schiaffo. La vita di un bambino interrotta così precocemente nel tentativo di scappare dall’inferno alla ricerca di un luogo dove vivere in pace. Cosa resta ora di quel bambino?

Ai bollettini di guerra siamo tutti abituati. Così come siamo abituati al male. Il nostro cuore pare anestetizzato, incapace di sentire. Quando muore un bambino il primo pensiero è “perché? Perché proprio lui? Cosa ha fatto di male? Se un Dio c’è perché permette ciò?”. Tutte queste domande sono lecite, sono umane. Non capiremo mai fino in fondo se c’è una risposta. Eppure pensando a quel bambino mi sento di affermare che la sua vita –e la sua morte- non sono state vane.

Credo che quel bambino sia per tutti noi lo strumento che per almeno un attimo ci ha reso uomini. Ci ha riportato alla realtà, ha agito da antidoto alla durezza del nostro cuore che cerca sempre e solo una “tranquillità di facciata” e che fa finta di non vedere il dramma che milioni di persone stanno vivendo. Quelle persone che qualcuno crede possano rovinare il nostro già precario equilibrio.

Non so se tra qualche giorno tutto sarà come prima. Probabilmente, sommersi come siamo dalle informazioni, molti si saranno dimenticati. Altri invece se lo ricorderanno per sempre e dovranno dire grazie a quel bambino per averli fatti tornare uomini. Nei giorni scorsi ho assistito ad un incontro in cui un dottore ha detto che per essere dei grandi medici bisogna sapersi commuovere e condividere il dolore dell’altro. Ecco, il punto è proprio questo: a qualsiasi livello, dalla politica al più umile dei lavori, questa condizione è necessaria. Solo così riusciremo ad affrontare la vita. Solo con quello sguardo riusciremo ad affrontare umanamente le sfide che oggi ci troviamo davanti. La morte di quel bambino ha preso significato.

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Fare il giornalista (o corrispondente) oggi. Ecco come ti confeziono uno scoop

gender“Amare la verità più di se stessi”. Anni fa assistetti ad un incontro sul giornalismo che portava proprio questo titolo. Eviterò di dire dove e il nome dei relatori per non influenzare la lettura. Bene, da quel giorno ho pensato che quando sarei diventato giornalista quella frase mi avrebbe guidato. Pur con tutti i miei limiti cerco di farlo ma quando vedo che volutamente c’è chi cerca il contrario non posso evitare di sottolinearlo.

Mi spiego. Oggi c’è stata l’ennesima interpretazione di un messaggio privato del Papa. Senza farla troppo lunga il riassunto della vicenda è il seguente: Papa Francesco ha risposto (non lui, chi si occupa della comunicazione…) ad una lettera scritta dall’autrice di alcuni libri messi al bando dal comune di Venezia  in quanto giudicati inneggianti alla teoria gender. La scrittrice –senza postare il testo integrale della lettera- da felicemente notizia su Facebook dell’avvenuta risposta.

Subito la news rimbalza sui siti di molte testate (anche molto famose) e c’è chi si spinge addirittura ad affermare che il Papa avrebbe detto di “andare avanti” con questa attività. Proprio per il fatto che il pontefice si è già espresso duramente sulla questione “gender”, una notizia del genere sa tanto di bufala. La smentita arriva dalla Sala Stampa Vaticana con un comunicato (leggi qui).

Ciò che mi lascia davvero perplesso è il modo di operare di chi fa informazione. Uno si inventa totalmente delle dichiarazioni, gli altri a ruota copiano e incollano la notizia contribuendo alla sua diffusione. Dimenticavo: non si tratta della solita disputa “italiana”. La notizia è sbarcata anche sul The Guardian con un articolo a firma del proprio corrispondente. Già, figura magica quella del corrispondente… Oggi più che mai sembra che svolgere quel lavoro consista nel monitorare i siti di news del luogo per poi parafrasare gli articoli.

Ho chiesto all’autrice se avesse letto la nota della sala stampa. La risposta è stata disarmante: “la dichiarazione è stata pubblicata dopo il mio articolo”. Passano alcuni minuti e chiedo spiegazioni sul perché abbia scritto una notizia del genere. Risposta: “Il Guardian ha ricevuto la lettera direttamente da Pardi. Potresti scrivere al nostro giornale”. Un po’ contraddittorio… Replico: “ma tu l’hai letta visto che hai scritto l’articolo? C’è qualcosa che non torna. O nella nota vaticana o da voi”.

Sto aspettando risposta.

Avanti Savoia!

p.s inutile dire che la vicenda è una mera interpretazione di queste parole. Nella lettera, come precisa il comunicato, si legge: «Sua Santità, grato per il delicato gesto e per i sentimenti che lo hanno suggerito, auspica una sempre più proficua attività al servizio delle giovani generazioni e della diffusione degli autentici valori umani e cristiani». Sarebbe questo il sostegno alle attività editoriali dell’autrice?

p.p.s Aggiunta alle ore 17: L’articolo del Guardian non cambia il titolo ma scorrendolo si possono trovare 3 righe (a metà dell’articolo) in cui si cita la smentita vaticana. Proprio perché si tratta di una smentita ufficiale il pezzo si contraddice da solo. Ma si sa, ormai si leggono solo i titoli.

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Kobane, Isis, riconquista e Wired…

kobaneOggi sono capitati due fatti che mi hanno fatto riflettere sullo stato attuale del giornalismo. Il primo riguarda il modo di lavorare, il secondo relativo al futuro della professione. Traete voi le conclusioni.

Questa mattina molto presto i principali quotidiani online italiani hanno aperto con la notizia relativa al crollo di Kobane per mano dell’Isis. Il titolo che andava per la maggiore era il seguente: “L’Isis riconquista Kobane”. Twitto la notizia e pochi secondi dopo un utente, che so essere lì in missione, mi dice che sto scrivendo delle fesserie. Ma come? L’hanno detto BBC, Reuters e l’Osservatorio per i diritti dei Siriani…

Fare informazione online ricorda molto i polli in batteria. Contenuti di qualità e approfondimento ce ne sono ma la cronaca viene spesso coperta dalle agenzie. Chi sta al “desk” non fa altro che prendere le notizie dalle agenzie stampa, le copia-incolla (a volte le si rimaneggia) e via, si manda online sperando di arrivare prima degli altri. E’ quello che è accaduto anche oggi con la notizia su Kobane. “Peccato” però che la città siriana in terra turca non è stata riconquistata dall’Isis. Il grosso equivoco in cui sono caduti tutti per diverso tempo è frutto di un’errata traduzione. Le agenzie internazionali riportano il “re-entering” dell’Isis. Re-enetering non significa riconquista. L’attacco c’è stato ma la città, in quel momento, non era affatto caduta nelle mani del Califfo. C’è chi, a ore dal “fattaccio”, continua ad affermare che Kobane è in mano all’Isis. Errori che possono capitare nel giornalismo copia-incolla.

Sempre questa mattina la testata Wired, una delle migliori –online e carta- a mio avviso in campo tecnologico, ha pubblicato un comunicato sindacale in cui si legge:

“Il digitale ci salverà, ma la carta non muore” aveva dichiarato lo scorso 13 aprile al Corriere della Sera il deputy managing director di Condé Nast Italia, Fedele Usai. Appena due mesi dopo, le azioni dell’azienda non sembrano affatto confermare questa linea. Dai vertici aziendali sono stati comunicati pesanti tagli nella struttura di Wired, testata presentata a più riprese come laboratorio del nuovo modello di giornalismo digitale.

In seguito alle dimissioni del direttore Massimo Russo e alla successiva nomina di Federico Ferrazza, l’azienda ha comunicato in conferenza stampa il 12 giugno 2015 che:

  1. Wired punterà su digitale ed eventi per crescere.
  2. La nomina alla direzione di Federico Ferrazza, è stato “un premio al lavoro di squadra“.
  3. “Per l’Italia Wired è un brand fondamentale, uno dei tre pilastri del futuro di Condé Nast“.

Ai rappresentanti sindacali e alla redazione è stato comunicato dal Chief operating officer di Condé Nast Italia, Domenico Nocco che:

  1. La periodicità del cartaceo passerà da dieci numeri l’anno a due, da affidare completamente a service esterni.
  2. Sei dei 12 giornalisti della redazione (il 50%) sono considerati esuberi.
  3. Al momento la redazione confermata sul progetto Wired Italia è, quindi, formata da sei giornalisti (di cui uno part-time).

 

La redazione di Wired Italia e i giornalisti di Condé Nast esprimono forte preoccupazione per il futuro della testata e del brand stesso e si riserva di intraprendere tutte le azioni necessarie per salvaguardare il posto dei sei colleghi in mobilità e le condizioni di lavoro che garantiscano la qualità che ha sempre contraddistinto Wired.

Non entro in merito delle decisioni prese. Non conosco la reale situazione finanziaria del gruppo e nemmeno i dati delle vendite del cartaceo. Ciò che però non posso fare a meno di sottolineare è che la notizia è l’ennesimo colpo basso alla professione. C’è crisi, gli investimenti pubblicitari mancano… Però ci sono anche tante redazioni piene zeppe di giornalisti assunti nei tempi delle “vacche grasse” con stipendi faraonici che “guai ad abbassarsi a fare l’online”. Intanto fuori dalle redazioni pullulano i collaboratori esterni che, pagati una miseria, riempiono di contenuti il giornale. Quei collaboratori che si fa così tanta fatica a stabilizzare perché –non succede fortunatamente ovunque- a volte si preferisce chi è in pensione e vuole rimanere come consulente. Sì, c’è crisi. Soprattutto nelle teste.

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In Francia censurano il video “Dear future mom” con i ragazzi Down

Ve lo ricordate “Dear future mom“, il video realizzato in occasione della giornata mondiale dedicata alla sindrome di Down? Ben 5 milioni di persone l’hanno visto. Difficile rimanere impassibili.

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=Ju-q4OnBtNU]

Qualcuno in Francia deve essere rimasto però turbato dalla sua visione sulle principali reti nazionali. Il turbamento deve essere stato talmente forte tanto da indurre il Conseil supérieur de l’audiovisuel (CSA), l’ente che vigila sui contenuti di radio e televisioni, a censurare l’iniziativa. Il motivo ha dell’imbarazzante. Per il CSA il video è da censurare (per il documento originale clicca qui) in quanto potrebbe creare confusione. Un video dunque dal messaggio ambiguo. Un video non rispettoso della libertà. Un video che potrebbe indurre, nella sua confusione, qualche mamma a porre fine alla gravidanza. Riassumendo: in realtà il video non va bene perché prende una posizione. Un messaggio ben preciso che può influenzare la libertà dell’individuo. Lascio a voi ogni commento… Fortunatamente la decisione è stata impugnata davanti al Consiglio di Stato. Sette ragazzi con sindrome di Down, senza nessuna rappresentanza di avvocati, hanno da poco presentato richiesta di annullamento su quanto stabilito dal CSA.

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Prato dimentica le proprie origini

Schermata 2014-09-09 a 23.51.01Una scena del genere non era riuscito ad immaginarla nemmeno Guareschi nel suo Don Camillo. A Prato invece tutto è possibile. Proprio tutto. Un esempio? Celebrare il compleanno della Beata Vergine Maria il 9 settembre anziché l’otto. Un’impresa che non era riuscita mai a nessuno. Colpa del prolungarsi del corteggio storico, dicono. E così, dopo decenni, accade che l’ostensione del sacro cingolo della Madonna -appuntamento simbolo della città di Prato- viene relegata ad evento di serie B, alle ore 00:30 del giorno successivo, in una piazza del Duomo quasi deserta e con il vescovo costretto ad accelerare il suo discorso.

Una situazione assai spiacevole che non è frutto solamente di manifesta incapacità organizzativa. Sono cose che capitano, verrebbe da dire. Invece no. Quel che è accaduto non è altro che lo specchio della società in cui viviamo. Una società che si vergogna delle proprie origini, che vuole cancellarle perché potrebbero offendere qualcuno. Meglio allungare il corteggio storico con esibizioni e canti che di pratese hanno ben poco. Quelle sì che sono tradizioni. Per la predica del vescovo e l’esibizione di un pezzo di stoffa della dubbia provenienza c’è tempo…

Credenti o meno, chiunque abbia passato qualche anno a Prato sa benissimo quanto la città sia legata all’ostensione del sacro cingolo. Quanto è successo non è da archiviare con un banale “ci siamo organizzati male”. Fossimo stati in un film Don Camillo, per non fare sgarbo alla Madonna, sarebbe salito sul campanile e avrebbe tirato indietro le lancette dell’orologio. Poi avrebbe lanciato qualche panca della chiesa contro i responsabili del ritardo. Peppone avrebbe capito e il giorno successivo sarebbe andato ad accendere un cero alla Madonna. E a Prato?

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Meeting di Rimini: cosa siamo qui a fare?

20130818-093210.jpg Da oggi e per una settimana vi inonderò di tweet dal Meeting di Rimini. Tranquilli, non ho cambiato lavoro… Come l’anno scorso farò parte del social media team dedicato all’evento. Qualcuno potrà pensare: “eccolo, vai che twitta solo di politica…”. Sbagliato! Sul blog ho avuto modo già diverse volte di spiegare il perché della mia presenza a Rimini. Se volete leggere basta cliccare qui e, per chi non è stanco, qui! Il meeting è un luogo dove poter vedere come le persone, plasmate dall’incontro con Cristo, danno vita ad a opere straordinarie. Il nostro compito sarà quello di testimoniare tutto ciò attraverso i social network. In un periodo di crisi come questo vedere migliaia di volontari venire a lavorare gratis è più che un miracolo. Buon Meeting!

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Sul blitz animalista alla Statale regna l’indifferenza. Ma a pagare sono i ricercatori e i malati

foto1Sabato scorso un gruppo di “manifestanti” ha avuto la brillante idea di barricarsi all’interno del Dipartimento di Farmacologia dell’Università degli Studi di Milano. Protesta nei confronti del governo per la scarsità di fondi alla ricerca? No, nulla di tutto questo. Dopo lunghe ore di trattative lo sparuto gruppo ha abbandonato l’edificio portando con sé centinaia di topi e conigli destinati alla sperimentazione. Il tutto nella’impunità generale.

Sui motivi che hanno spinto gli animalisti a questo estremo gesto si potrebbe discutere per ore. Discutere dell’ignoranza generale quando si parla di vivisezione, di sperimentazione animale, di protocolli che limitano al massimo la sofferenza, dell’equiparazione tra persone e topi, della necessità della sperimentazione animale in assenza di altri modelli…

Ma questi sarebbero discorsi inutili perché con lo sconsiderato gesto dei paladini dei diritti animali sono andati in fumo anni di ricerca. Sperimentazioni promettenti contro malattie quali l’Alzheimer, la tanto temuta SLA, la sclerosi multipla, il morbo di Parkinson e molte altre ancora.

Con questo blitz gli animalisti non hanno colpito nessun sistema. Hanno colpito tanti ragazzi che hanno un nome e un cognome. Ragazzi che lavorano sino a 12 ore al giorno per un compenso ridicolo rispetto a quanto viene percepito dai coetanei esteri. Ricercatori in procinto di pubblicare i risultati dei loro studi sulle più prestigiose riviste scientifiche ma che non vedranno mai la luce. Studenti che con fatica lavorano al bar la sera per potersi pagare l’affitto e continuare gli studi. In altre parole… ragazzi in carne ed ossa come voi animalisti.

Dentro quei laboratori, dove tutto avviene tranne che la tortura, oggi ci sono ragazzi disperati che piangono per aver perso tutto il loro lavoro. Ma dentro quei laboratori è stata cancellata anche la speranza di chi vive in attesa di una cura e di chi con fatica sostiene i costi della ricerca scientifica, oggi più che mai accantonata dai discorsi della vera politica.

A vincere sono stati loro, gli animalisti. Contenti e con il volto orgoglioso si fanno ritrarre con gli “ormai loro” scatoloni pieni di topi. Il tutto nell’indifferenza generale delle istituzioni. Intanto Oltremanica, sulle pagine di Nature, ci si interroga su come possa essere accaduto un episodio del genere. Non solo, Oltreoceano invece in queste ore Obama premia alla Casa Bianca studenti americani che hanno vinto competizioni nazionali di scienza, tecnologia, ingegneria e matematica.

Viva l’Italia.

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Metodo Vannoni: chi sono i buoni? Chi i cattivi?

IMG_2722[1]Nei giorni scorsi ho avuto modo di assistere al dibattito organizzato da Corriere della Sera sull’ormai noto metodo Vannoni della Fondazione Stamina. Arrivato in anticipo mi sono messo in fila come tutti per poter accedere alla sala. Accanto a me non solo curiosi ma tanti malati su sedia a rotelle. In particolare sono stato colpito dalla presenza di un bambino di non più di 3 anni, seduto su una carrozzina in miniatura, accompagnato dai giovani genitori. Di fronte a situazioni così è difficile non commuoversi e rimanere impassibili.

Una volta entrati e iniziato il dibattito ho avuto la netta impressione, già dopo pochi minuti, che non sarebbe servito a nulla. Da un lato i “buoni”, il dottor Andolina e lo psicologo Vannoni, dall’altro i “cattivi”, ovvero la comunità scientifica. I buoni che propongono una cura a base di staminali e i cattivi che fanno di tutto per stoppare il nobile tentativo. Un film già visto molto simile al caso Di Bella.

I buoni affermano che la loro metodica per preparare le staminali è sicura e brevettata. L’infusione delle staminali ha portato miglioramenti in quei bambini che altrimenti non avrebbero cure per la loro malattia. Andolina ha addirittura affermato che anche in un malato di SLA, grazie al loro metodo, si sono visti segni di miglioramento. I buoni affermano anche che tutto è stato fatto secondo la legge, che loro non fanno altro che applicare le cure compassionevoli.

Per fare un po’ di chiarezza occorre partire da quest’ultimo punto. Le cure compassionevoli sono cure sperimentali che si possono utilizzare per quelle malattie che al momento non possiedono una terapia standard e certificata. Ciò avviene a patto che i dati disponibili sulle sperimentazioni siano sufficienti per formulare un favorevole giudizio sull’efficacia e la tollerabilità della cura.

Questo non è il caso del metodo Vannoni di Stamina. Il metodo dei buoni non è mai stato oggetto di protocolli di sperimentazione. Non esiste nessun dato che possa fare minimamente pensare che la metodica funzioni. Non esistono pubblicazioni scientifiche che ne dimostrino l’efficacia. Non solo: chi assicura ai genitori che il metodo sia sicuro? Non è come bere un bicchier d’acqua che, male che vada, non sortisce nessun effetto. E se fosse addirittura pericoloso? Per contro Andoina e Vannoni sostengono che a nessuno interessa la loro “cura” perché si vuole affossare questo tipo di ricerca.

IMG_2705[1]Curare queste malattie devastanti attraverso una straordinaria nuova terapia potrebbe valere il premio Nobel a chiunque. Perché non dimostrarlo? Perché Andolina e Vannoni sono così restii a pubblicare questi dati su una rivista scientifica come fanno tutti i loro colleghi? Validando scientificamente il metodo Vannoni permetterebbero a tutti i malati del futuro di usufruire della loro miracolosa cura. Perché tutto ciò non viene fatto? Non pariamoci dietro il complotto delle case farmaceutiche, qui non esiste nessuna cura che potrebbe competere con il metodo Stamina. Anzi, sarebbe proprio nell’interesse delle big-pharma accaparrarsi una cura del genere.

Di Vannoni e Stamina si potrebbe dire ancora molto (rinvio a giudizio, brevetti che non esistono ecc…) ma non è mio intento porre l’attenzione sui punti oscuri. L’attenzione vorrei che fosse posta sui malati. Il mondo scientifico cerca silenziosamente di dare loro una speranza basata sulla conoscenza. Il mondo dei buoni cerca di farlo senza uno straccio di prova documentata. Ma se nel primo caso siamo di fronte a speranza, nel secondo siamo di fronte all’illusione. Intanto sono più di 11 mila le richieste di cura pervenute a Stamina.

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Meeting di Rimini: ecco perché ci lavoro

“Meeting di Rimini? No grazie, non mi interesso di politica. Poi comunque sono tutti ladri”. Quanto volte abbiamo sentito pronunciare questa frase? 

Confesso che anche io, diversi anni fa, avrei detto la stessa cosa. In fondo su televisioni e carta stampata è spesso la presenza del politico di turno a farla da padrone. Esistono poi online dei reportage, che di giornalistico hanno molto poco, dove l’evento meeting viene dipinto come un girone dell’inferno dantesco.  Una rappresentazione lontana anni luce dalla realtà.

Ecco perché quest’anno è stato deciso di creare il “social media team”. Attraverso l’utilizzo dei social network cercheremo di raccontare cosa realmente è il meeting di Rimini in ogni suo aspetto.  Quello che scrissi due anni fa (leggi), visto con i miei occhi, proveremo a testimoniarlo durante tutta la settimana. Seguici sui canali Twitter e Facebook!