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Il cancro è una cosa seria. Iset, l’analisi del sangue per trovare i tumori, un po’ meno

Oggi nessun esame del sangue può essere utilizzato per fare diagnosi precoce di cancro. Non ci riesce Iset e non ci riescono la miriade di test simili messi a punto nei laboratori di mezzo mondo. Eppure da diverse settimane in molti organi di informazione (“Otto e mezzo” su La7, “Corriere della Sera” e “Porta a Porta” in Rai) non si fa altro che parlare della miracolosa tecnica Iset (Isolation by Tumor Size), messa a punto dall’oncologa italo-francese Patrizia Paterlini-Bréchot, che consentirebbe si scovare la presenza di un tumore attraverso un semplice esame del sangue. Un’esposizione mediatica non indifferente che ha sortito diversi effetti come, ad esempio, la nascita di petizioni online che chiedono al Ministero di poter erogare gratuitamente il test per ogni cittadino.

ISET, UN TEST “VECCHIO” ANCORA DA VALIDARE

Scoperta rivoluzionaria o abile mossa di marketing? Decisamente la seconda. Tutto questo interesse da parte dei “giornalisti” nasce essenzialmente dal fatto che l’oncologa italo-francese ha appena pubblicato con Mondadori il libro “Uccidere il cancro“. Un volume in cui narra la sua storia e, in particolare, come grazie al suo test potremo arrivare a diagnosticare il cancro con largo anticipo grazie ad un semplice prelievo di sangue. Il concetto che emerge prepotentemente nel libro è il seguente: Iset è in grado di individuare la presenza di cellule tumorali all’interno del sangue addirittura diversi anni prima che il tumore sia visibile con le attuali tecniche diagnostiche. Un messaggio che non è assolutamente supportato da evidenze scientifiche. Non solo, andando a ben vedere Iset pare essere una tecnica già vecchia, con dei forti limiti, e molto poco utile rispetto ad alcuni test oggi in sperimentazione. Ecco i 3 principali limiti della tecnica (non infieriamo sul fatto che ad oggi c’è solo un ristretto studio francese che da ragione della tecnica. Un po’ poco per spacciare il metodo come ciò che ci salverà dai tumori):

Iset pur isolando cellule cancerose circolanti non ci dà nessuna informazione sull’origine e sulle caratteristiche del tumore. Caratteristiche che andrebbero comunque indagate in un secondo momento attraverso altre analisi specifiche

La presenza di cellule cancerose nel sangue non significa che c’è per forza un tumore. Il nostro sistema immunitario infatti può fermare sul nascere la presenza di eventuali cellule anomale. Non solo, proprio grazie ad esso non tutte le cellule tumorali danno per forza origine a metastasi in quanto vengono eliminate prima che possano invadere altri tessuti

Molto spesso quando si arriva ad ad avere cellule tumorali circolanti nel sangue significa che il tumore ha raggiunto una massa tale da poter essere individuato attraverso tecniche diagnostiche quali TAC, ecografia e risonanza magnetica

LE ANALISI DEL SANGUE SERVONO A MONITORARE IL CANCRO, NON A DIAGNOSTICARLO

A scanso di equivoci: Iset non è una truffa. E’ una tecnica di tutto rispetto che però è ferma al 2000. Oggi grazie ad un prelievo di sangue non si va più a cercare grossolanamente una cellula tumorale bensì i suoi biomarcatori (Dna, microRNA ecc…), ovvero le sostanze che il tumore rilascia. Molecole che ci dicono in maniera molto precisa quale tumore abbiamo davanti. La cosiddetta “biopsia liquida” Tecniche ancora in via sperimentale che però già ora possono essere sfruttate per monitorare l’evoluzione del tumore e la risposta alle terapie (qui, se volete approfondire).

GIORNALISTA SCIENTIFICO CHI?

Cosa imparare dunque da tutta questa vicenda? Che lotta ai tumori non la si fa pubblicando libri. Che se una tecnica o una cura è realmente rivoluzionaria non ha eco solo in Italia ma dovrebbe stare su tutti i quotidiani del mondo.  Che basta avere un abile ufficio marketing. Che oggi più che mai il giornalismo è morto. Sì, proprio quest’ultima affermazione è la più vera: perché si decide di dare spazio a notizie del genere senza offrire una chiave di lettura critica? Oggi editori e direttori dei giornali dovrebbero essere maggiormente consapevoli della pericolosità di certe informazioni errate in ambito di salute. Informazioni distorte che non vengono affatto pubblicate da “siti alternativi” ma che trovano spazio su testate che avrebbero il compito di offrire al lettore un’informazione seria, certa, verificata e contestualizzata. Un’informazione che dovrebbe essere fatta da chi ha competenza in materia e non dal primo che è di turno in redazione.

OGGI GLI ESAMI DI ROUTINE CI SALVANO LA VITA

Dire che attraverso un test del sangue è possibile fare diagnosi precoce di tumore è un’affermazione molto pericolosa. Oltre essere un’utopia questa “sparata” rischia di far passare in secondo piano importanti esami già oggi fondamentali per individuare un tumore. Andate a dirlo a chi oggi si è salvato grazie ad una mammografia, ad un controllo dei nei, ad una colonscopia… Nella scienza diffidiamo sempre da chi propone soluzioni semplici a problemi complessi. Il cancro è uno di questi.

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PSA: un esame quasi sempre poco utile. Intervista a Richard Ablin

Quasi sempre uno scienziato è sempre fiero delle scoperte che fa. “Quasi” perché questo non è il caso di Richard Ablin –professore di patologia all’University of Arizona College of Medicine-, scopritore del PSA, l’antigene prostata specifico. «Scoprirlo è stato il peggior errore della mia vita» dichiara senza troppi giri di parole. Un peso –involontario- sulla coscienza ben spiegato nel libro “The great prostate hoax” -il grande inganno sulla prostata- pubblicato negli Stati Uniti nel 2014 e in arrivo oggi nelle librerie italiane. Un testo nel quale Ablin chiede scusa ad un immaginario John, 50enne che si è visto rovinata la vita dal giorno in cui si sottopose al test. Il messaggio che emerge dal testo è riassumibile in poche righe: il PSA può far scoprire –casualmente- un cancro della prostata prima che si manifesti con qualsiasi disturbo ma, nella maggior parte dei casi, si tratta di tumori indolenti che non si sarebbero mai manifestati in vita. Risultato? Rimozione –inutile- della prostata con il rischio di restare impotenti e incontinenti già a 50 anni. Un repentino passaggio da una vita in salute ad un’esistenza fortemente condizionata.

La prima volta che Ablin isola il PSA è nel 1970. Tecnicamente si tratta di un enzima prodotto dalla prostata che ha come funzione quella di mantenere fluido il liquido seminale. Ablin non chiama il PSA “antigene specifico del cancro prostatico” perché semplicemente non è un indicatore di cancro. Il PSA è infatti sempre presente e rilevabile a livello sanguigno ma è un indicatore sullo stato generale di salute della prostata. Ablin, per spiegare il concetto, non usa mezzi termini: «se un camionista dopo aver guidato per le montagne del Wyoming si fermasse alla sera in una clinica per fare un esame la mattina successiva, il tragitto pieno di scossoni potrebbe avergli innalzato il valore. Lo stesso potrebbe derivare da una condizione relativamente comune conosciuta come iperplasia prostatica benigna. La lista dei colpevoli continua ma il risultato per il test del PSA rimane lo stesso: il livello può essere condizionato da diversi stimoli e i numeri non necessariamente indicano il cancro».

Eppure, nonostante queste evidenze, a partire dal 1994 la FDA approva l’esame del dosaggio quale test per la diagnosi precoce del cancro della prostata. Nell’approvarlo l’ente statunitense ha fatto affidamento su uno studio che ha mostrato che il test è in grado di rilevare il 3,8 per cento dei tumori della prostata, un tasso migliore rispetto al metodo standard dell’ispezione rettale. L’inizio della fine, secondo Ablin. Attenzione ad interpretare il messaggio: per molte forme di cancro giocare d’anticipo, ovvero arrivare ad una diagnosi precoce, è fondamentale per superare la malattia. In molti altri casi invece anticipare la diagnosi, attraverso campagne di screening a tappeto, non produce vantaggi apprezzabili. Anzi, comporta un rischio molto concreto per la salute detto “sovradiagnosi”. «Quello alla prostata –spiega Ablin- è uno dei tumori più diffusi nell’uomo ma si è dimostrato essere, in molti casi, una malattia relativamente benigna con un’evoluzione molto lenta. Evoluzione che non è assolutamente prevedibile con il dosaggio del PSA».
Di fronte ad un valore elevato inizia un effetto domino fatto di biopsie, diagnosi di tumore e proposta di rimozione chirurgica radicale della ghiandola. Operazione che può lasciare pesanti segni –incontinenza urinaria ed impotenza- e che spesso non risulta essere necessaria in quanto il tumore cresce talmente lento che la persona morirà per altre cause. Ed è proprio questo il punto: «dopo decenni di utilizzo del PSA quale metodo di screening i dati dicono che la mortalità per tumore alla prostata non differisce significativamente tra chi si sottopone al test e chi no. I risultati confermano che se lo screening evita casualmente a qualcuno di morire di cancro della prostata, per ogni morte evitata da trenta a quaranta uomini hanno la vita rovinata da interventi inutili. Ecco perché utilizzarlo come metodo di screening è una scelta folle dettata dal solo interesse economico. Più test, più operazioni, più robot venduti, più farmaci utilizzati per l’impotenza» conclude Ablin.

Fortunatamente però –dopo tante denunce pubbliche- qualcosa sta cambiando. Dopo anni di utilizzo indiscriminato tra gli urologi sta crescendo sempre di più la consapevolezza che il PSA andrebbe utilizzato –nell’attesa di trovare un vero marcatore specifico- per aiutare i medici a trattare gli uomini già malati di cancro della prostata e per individuare le ricorrenze del cancro dopo il trattamento. In aggiunta può essere utilizzato quando c’è un forte sospetto di familiarità per la malattia. Sul quando e come intervenire l’ultimo studio pubblicato dal NEJM a metà settembre parla da solo: nei casi di tumore in fase iniziale il tasso di sopravvivenza a 10 anni è lo stesso, 99%, sia che si venga operati, che sottoposti a radioterapia o ad una sorveglianza attiva.

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Antibiotici e virus: la confusione è anche in chi comunica

affissione-HPV_retro1Nei giorni scorsi la Commissione Europea ha pubblicato il rapporto Eurobarometer sulla percezione dei cittadini dell’Unione in merito agli antibiotici. I risultati sono abbastanza sconfortanti. Uno su tutti: più di una persona su due non è a conoscenza che questi farmaci sono totalmente inutili contro i virus. Una differenza, quella tra batteri –il vero bersaglio degli antibiotici- e virus, inspiegabilmente difficile da fare entrare in testa. Se per il cittadino comune la non conoscenza è parzialmente giustificata, risulta inammissibile per chi si occupa di salute. Di esempi a riguardo, recentissimi, ce ne sono molti.

Se per quanto riguarda il ministro Lorenzin si è trattato “spero” di un lapsus (leggi qui), stessa cosa non si può dire per Raffaella Docimo, presidente della Società italiana di odontoiatria pediatrica, che in un articolo su Corriere (mai corretto nonostante le segnalazioni) a firma di Margherita De Bac parla del virus Streptococcus mutans (è un microrganismo) come causa della carie. Ma gli errori non finiscono qui. Anche l’occhio vuole la sua parte.

In questi giorni sui vagoni della metropolitana di Milano compare una campagna in favore della vaccinazione per l’HPV, un virus che può portare allo sviluppo del cancro della cervice uterina. Iniziativa lodevole, promossa da Donneinrete.org con il sostegno di Sanofi Pasteur MSD, condita da un errore grossolano. Nella brochure informativa l’immagine scelta per l’occasione non ha nulla a che fare con il virus ma rappresenta una piastra di laboratorio contenente microrganismi. Una recente indagine afferma che per trovare lavoro una delle lauree più gettonate è quella in “comunicazione”. Sappiamo però cosa stiamo comunicando? Io ho sempre più dubbi.

p.s il post potrà risultare saccente ma proprio Eurobarometer afferma che laddove le persone sono più informate l’abuso di antibiotici è minore.

p.p.s alcuni hanno sottolineato che il termine microrganismo può essere riferito anche ai virus. Io, per semplicità e per non ripetermi, uso microrganismo per indicare i batteri. I virus li chiamo virus, punto.

 

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Vaccino universale contro il cancro: basta con il sensazionalismo

Schermata 2016-06-05 alle 18.07.41“Scoperto un vaccino universale contro il cancro”. Una notizia che farebbe sobbalzare chiunque dalla sedia, specialmente se quel chiunque ha un familiare che da tempo lotta contro un tumore. Eppure quella notizia è stata data, per la precisione la sera di mercoledì 1 giugno 2016. Siamo di fronte ad una vera e propria rivoluzione o all’ennesima sparata di chi si occupa di “fare informazione”? Se non volete dilungarvi nella lettura di questo post ecco a voi la risposta: no, ad oggi non esiste nessun vaccino universale contro il cancro.

Il vaccino sviluppato da un gruppo di scienziati tedeschi –che non previene il cancro bensì lo attacca e dunque viene chiamato “vaccino terapeutico”- ha dimostrato essere efficace (studi effettuati sui topi e su 3 persone) in alcuni casi di melanoma agendo attraverso la stimolazione del sistema immunitario. Una strategia utilizzata da anni –l’immunoterapia- che oggi ha già portato sul mercato diversi farmaci in grado di cambiare la storia di diversi tumori. Non è un caso che proprio in questi giorni, al congresso ASCO -il più importante appuntamento nella lotta al cancro-, gli oncologi di tutto il mondo siano a discutere di immunoterapia.

La vera novità dello studio tedesco pubblicato su Nature è nella modalità con cui viene stimolato il sistema immunitario, teoricamente valido per qualunque tumore. Un approccio promettente –ancora in gran parte da valutare- che al momento è ancora ben lontano dall’essere considerato cura universale. Perché allora tutta questa enfasi per la notizia da parte dei media nostrani? L’interesse dei media per la vicenda è iniziato in mattinata quando le agenzie stampa (ANSA ecc…) hanno cominciato a divulgare sotto embargo (per i profani, si tratta di comunicare in anteprima ai giornali una news che uscirà ufficialmente qualche ora dopo) la notizia dal titolo “scoperto un vaccino universale contro il cancro”. Con un “lancio di agenzia” del genere le redazioni sono entrate in fibrillazione. Una notizia troppo ghiotta per lasciarsela scappare. Purtroppo però, come sempre più spesso accade, il tempo per approfondire è sempre meno e la presenza di interna di giornalisti qualificati del settore è al minimo storico. Risultato? Alle ore 19, alla scadenza dell’embargo, telegiornali e siti web annunciavano la notizia “bomba”.

Prevedendo che sarebbe andata in questo modo ho provato a cercare sui media esteri traccia della notizia. In fondo una news del genere dovrebbe comparire su tutti i siti web del mondo. Ricerca vana, non una riga sul New York Times, qualche articolo che riporta la scoperta -giustamente- senza troppo sensazionalismo. La mattina seguente, il 2 giugno, stessa storia. Molti quotidiani hanno dedicato uno spazio in prima pagina alla notizia. Una delle poche eccezioni -tra i giornali cartacei- è Repubblica, a lei il merito di aver dedicato solo poche righe -senza richiamo in prima- raccontando la notizia per quella che è, un buono e promettente studio.

Credo che il primo compito di un giornalista che si occupa di salute sia quello di non creare facili illusioni in chi legge, specialmente se si scrive di patologie come il cancro. Per scrivere di salute occorre avere quelle competenze che ti consentano di contestualizzare ciò che stai raccontando. Finché dai notizia del nuovo laser che ti permetterà di non fare più la ceretta è un conto, per altri argomenti meglio lasciare perdere il sensazionalismo. Lo si faccia almeno per rispetto di chi oggi sta affrontando la malattia. La ricerca avanza per piccoli passi. Diffidare da chi vuol far credere che basti una soluzione semplice ad un problema molto complesso. Per quelle ci hanno già pensato Di Bella e Vannoni. Non mettiamoci ora anche noi giornalisti.

Per maggiori approfondimenti sulla notizia a questo link potete trovare un mio articolo, pubblicato da Fondazione Veronesi, in cui cerco di contestualizzare la notizia del “vaccino universale:

http://www.fondazioneveronesi.it/articoli/oncologia/vaccino-universale-contro-il-cancro-bufala-o-verita/

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Il rigore perfetto

dudekDomani a Milano si gioca la finale di Champions League. Ripropongo qui un mio vecchio articolo del 2010… non si sa mai che finisca ai rigori.

“Nino non aver paura di sbagliare un calcio di rigore, non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore…”

L’abbiamo riconosciuta tutti, è un pezzo di una canzone “storica” di De Gregori, “La leva calcistica della classe ’68”. Di questi tempi, complici i Mondiali di calcio in Sudafrica, torna più che mai di moda parlare di questo affascinante quanto insidioso gesto calcistico. Gyan, il nome ricorda qualcosa? Nessuno avrebbe voluto ritrovarsi nei suoi panni. All’ultimo secondo della partita aveva l’occasione di portare, per la prima volta al mondo, una squadra africana in semifinale mondiale. Tutti gli occhi di un continente erano su di lui. Il pallone pesava come un macigno.
Se trasformava il rigore sarebbe diventato un idolo nazionale, se l’avesse sbagliato invece… beh, è meglio non pensarci. L’esito lo conosciamo tutti, il rigore è stato calciato sulla traversa e ancora oggi il povero giocatore non si dà pace. Eppure, nella stessa partita, Gyan un penalty l’ha trasformato subito dopo. Peccato però che non fosse più decisivo. Rimane comunque il “coraggio” con cui è stato in grado di rialzarsi e provare nuovamente. In fondo, tutti noi vorremmo sempre una seconda possibilità quando sbagliamo.

Ma è veramente così difficile tirare un calcio di rigore? Cosa ci vuole a far passare un oggetto di poco più di 20 centimetri di diametro per una porta che misura una larghezza di 7 metri e 32 centimetri per un’altezza di 2 metri e 44 centimetri? Anzi, per volerla fare ancor più facile, cosa ci vuole a farla passare in ben 17,86 metri quadrati? Perché tutti questi numeri? C’entra qualcosa la scienza con il calcio? La risposta è sì, e addirittura ci sono scienziati che si occupano di studiare come si tira un calcio di rigore. In particolare, è stata creata la formula per tirare il calcio di rigore perfetto, quella che ogni attaccante vorrebbe usare per non finire come il povero Gyan. Cerchiamo allora di capire come. In fondo ci può tornare sempre utile, fosse anche nel più sconosciuto torneo aziendale!

Chi si è preso l’impegno dello studio è Tim Cable della John Moores University di Liverpool. Il suo gruppo di ricerca ha studiato ore e ore di filmati ad alta definizione relativi ai calci di rigore per trovare la formula per il tiro imparabile. Vi risparmio le formule matematiche. Secondo Cable, uno dei punti fondamentali del rigore perfetto è la velocità da imprimere al pallone. Deve essere di almeno 105 chilometri orari. Scordatevi dunque un “cucchiaio” alla Totti. Per raggiungere una simile velocità occorrono almeno 5-6 passi prima di raggiungere il pallone. Inoltre, bisogna fare attenzione a come si colpisce la palla rispetto alla corsa, non superando l’angolo di tiro di più di 20-30 gradi. E non è finita qui. Se siete riusciti a fare queste due cose, ora arriva la parte più difficile. Il pallone deve essere calciato in un punto preciso, a mezzo metro di distanza tra la traversa e il palo.

Semplice vero? La formula è dunque fatta. Rispettando queste indicazioni sarete sicuri di segnare. Ma il portiere che fine ha fatto? Nessun problema, lui è quello che più di tutti parte svantaggiato. Facendo un paio di calcoli, possiamo dire con buona probabilità che il “malcapitato” riesce a coprire il 72% della superficie di porta. Il restante 28% resta libero. Se tiriamo li dentro il gioco è fatto.
Da quanto abbiamo potuto capire sembra facile realizzare un gol su calcio di rigore. Forse Gyan non aveva studiato abbastanza le indicazioni del professor Cable. O forse l’equazione non ha tenuto conto di un piccola variabile: la paura. Quella che ha anche Nino, il protagonista della canzone di De Gregori.

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Morire di parto: la realtà non è l’effetto pitbull. Lo dicono i numeri

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Perché tutto ad un tratto l’Italia è diventata una nazione dove è pericoloso partorire? La domanda -leggendo i giornali di questi giorni, ben 5 giovani madri decedute- è più che lecita ma sbagliata in partenza. I fatti di cui siamo venuti a conoscenza in realtà seguono una logica precisa del mondo dell’informazione: l’effetto pitbull. Diversi anni fa, proprio parlando di una sfortunata serie di giovani madri morte di parto, l’ex direttore de La Stampa descriveva così il fenomeno:

L’effetto pitbull si ha quando una serie di fatti – che possono andare dagli incidenti del sabato sera ai sassi tirati sulle auto o sui treni, agli atti di bullismo a scuola, fino appunto ai cani che mordono i bambini – per coincidenza si ripetono in uno spazio di tempo ravvicinato creando un effetto di allarme e di iper-attenzione. A quel punto i giornalisti morbosamente vanno alla caccia di ogni episodio possa confermare il trend e trova nei cittadini e nei politici degli alleati naturali pronti a denunciare qualunque episodio, anche il più piccolo, anche il più vecchio. A questo si aggiunge un effetto emulazione che gonfia i fenomeni. Dopo qualche settimana prevale uno stato di nausea e stanchezza: il filone perde d’interesse e viene abbandonato. Ma non è che ogni giorno non ci siano cani che mordono o ragazzi che infastidiscono i compagni di classe.

Ogni giorno veniamo bombardati di notizie, il tempo che dedichiamo ad una lettura approfondita è sempre meno e nell’era del “più click fai, meglio é” per le redazioni è sempre più difficile fare informazione di qualità. Domandarsi perché così tante morti in sala parto è più che ragionevole ma si tratta di una domanda frutto di una mancata contestualizzazione del fenomeno. Compito dei mezzi di informazione è quello di dare una chiave di lettura a ciò che accade. Così facendo si scoprirebbe che in realtà l’Italia rimane uno dei Paesi più sicuri dove partorire.

Nonostante i dati non siano sempre concordanti le statistiche dicono che nella nostra nazione la mortalità materna al parto è pari a 4 donne su 100 mila (alcuni studi affermano invece 10 su 100 mila). Considerando che in Italia avvengono circa 500 mila parti ogni anno nella migliore delle ipotesi i decessi saranno 20, quasi due al mese. Un numero perfettamente in linea con quanto accade nella realtà: secondo i dati rilasciati dall’Istituto Superiore di Sanità le donne morte di parto negli ultimi due anni sono state 39. Morti che spesso non finiscono sui giornali. Indagare su quanto accaduto in queste ultime settimane è doveroso ma è sbagliato pensare ci sia un’emergenza. Sono i numeri a dirlo. L’emergenza è solo nei giornali e presto sarà un lontano ricordo sino alla prossima serie sfortunata che ci riproporrà l’effetto pitbull.

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Gli attacchi dell’Isis a Parigi in una Europa che non sa da dove viene

Schermata 2015-11-15 a 09.53.56Dopo gli attentati di Parigi il mondo si è diviso in due. Da un lato chi sostiene che Isis e Islam andrebbero rasi al suolo, dall’altro chi professa che un dialogo è ancora possibile. Se da un lato la prima reazione è comprensibile ed è dettata dalla rabbia -non nascondiamoci, chi ha ucciso lo ha fatto in nome di Allah-, l’altra pare essere un discorso da salotto buono ma privo di realizzazione nella vita reale.

Esattamente venerdì 13 novembre -data dei fatti di Parigi- a Milano si svolgeva la conferenza mondiale “Science for Peace” organizzata da Fondazione Umberto Veronesi. Tra i relatori era presente l’iraniana Shirin Ebadi, Premio Nobel per la Pace 2003. Da palco, come in diverse interviste rilasciate durante la sua permanenza in Italia in questo ultimo mese, ha affermato che l’Isis andrebbe combattuto lanciando bombe di libri. Una chiara indicazione che è solo attraverso la cultura che si riuscirà ad uscire da questo pantano.

Una posizione condivisibile ma che non basta. Occorre ribaltare la prospettiva. Se si vuole combattere il fondamentalismo anche l’Occidente deve svolgere la sua parte attiva. Non parlo di azioni militari bensì, anche in questo caso, di cultura. Le bombe di libri andrebbero lanciate in prima battuta sulle teste di noi europei. Per anni si è pensato -partendo da un falso concetto di libertà- che il dialogo e il rispetto delle posizioni dell’Islam sarebbe stato possibile solo eliminando le differenze. Un modo di venire incontro a ciò che appare diverso che passa dall’annullamento delle proprie radici.

Un modo di affrontare le questioni che è l’esatto opposto di quanto si dovrebbe fare. Per dialogare e convivere occorre innanzitutto sapere chi si è. Noi Europei non lo sappiamo più. Ci siamo impegnati a rimuovere -sempre per questa cultura del finto rispetto- tutto quello che ci ha sempre contraddistinto e che ha reso possibile una grande Europa. Non è un caso che nella bozza di quella che doveva diventare la “costituzione Europea” diversi Stati si sono lamentati perché era messo nero su bianco l’origine giudaico-cristiana del nostro continente.

E’ l’Europa, ancor prima degli Stati Uniti, il ventre molle dove l’Isis -e un certo modo di pensare- ha deciso di agire. In un’intervista apparsa qualche giorno fa su La Stampa, opera di Domenico Quirico, un combattente esprime con disarmante semplicità il concetto che ho cercato di spiegare in queste poche righe: «Noi combattiamo per una fede, loro no, perderanno». Nonostante questa evidenza noi continuiamo a volerci voltare dall’altra parte dimenticando, giorno dopo giorno, chi siamo e da dove veniamo. Ecco perché, la decisione di una scuola elementare di Firenze di annullare la visita a palazzo Strozzi per la mostra “Bellezza Divina” -dove sono esposte opere di Van Gogh, Chagall e Picasso che si cimentano nel rapporto con Dio e la croce-, non pare affatto un fulmine a ciel sereno bensì un modo ben consolidato di pensare che ci autodistruggerà.

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No, non si tratta di un Nobel mancato (con buona pace del professor Gorio)

GORIO - 01-© Roveri (1)“Il Nobel mancato dell’italiano Gorio. Anticipò lo studio dei due vincitori”. E’ questo il titolo con cui il Corriere della Sera presenta la storia di Alfredo Gorio, farmacologo italiano che rivendica il premio assegnato quest’anno alla coppia di ricercatori che ha contribuito a sviluppare un farmaco, l’avermectina, per la cura delle malattie da parassiti. Come sono andate realmente le cose? Nobel “rubato” o eccesso di protagonismo?

Scrivo queste righe perché quell’articolo pubblicato da Corriere poteva essere il mio. Nei giorni immediatamente successivi all’assegnazione del premio ho avuto il piacere di parlare con Gorio: nell’intervista mi ha raccontato la sua versione dei fatti. Compito del giornalista però è quello di verificare che tutto combaci e per farlo occorre tempo. Inizialmente, preso dall’entusiasmo per quello che giudicavo un piccolo “scoop”, scrissi un articolo abbastanza sbilanciato. Il messaggio era chiaro: Gorio meritava il Nobel. Poi però, confrontandomi con alcuni colleghi (in particolare con caporedattore di Tuttoscienze de La Stampa Gabriele Beccaria e la sua fitta rete di esperti in materia) e facendo le dovute verifiche del caso, abbiamo deciso di darne notizia ridimensionando il tutto.

Mi spiego: dietro ogni premio Nobel per la medicina c’è un lavoro di anni. A vincerlo è il capo del laboratorio, quello che ci mette testa, idee e visione. Non da meno però è il contributo di tanti scienziati che passo dopo passo contribuiscono a raggiungere la meta. Uno di essi è stato Alfredo Gorio. A lui va il merito di aver isolato e caratterizzato il meccanismo d’azione dell’avermectina. Può bastare questo per reclamare il Nobel?

Ricostruiamo la vicenda: i due futuri Nobel nei primi screening effettuati avevano capito che il mix di sostanze prodotte dai microrganismi da loro isolati avevano caratteristiche paralizzanti e che potevano essere sfruttate a fini terapeutici. Per meglio capirne il funzionamento si rivolgono all’allora capo di Gorio, Antony Cerami, che lavorava già su alcuni argomenti simili ai due vincitori occupandosi di tripanosomi e altri parassiti del sangue. La Merck aveva fiutato l’affare e aveva messo i soldi per sviluppare il principio attivo in cambio naturalmente di avere i brevetti. Ching C. Wang, capo del laboratorio di microbiologia della Merck, dà i brodi di coltura a Gorio affinché ne studi le caratteristiche. Cosa significa tutto ciò?

La Merck, intuendo che uno dei principi attivi contenuti nei brodi di coltura doveva a naso interagire con la trasmissione neuromuscolare, commissiona lo studio a Gorio. Lo scienziato italiano in due settimane isola e capisce su quali recettori agisce la sostanza confermando di essere un eccellente farmacologo. Fin qui tutto fila liscio. Lo scienziato italiano con in mano i risultati si reca dalla Merck ed espone quanto scoperto. Come ha dichiarato al sottoscritto nell’intervista e in quella pubblicata da Corriere «l’azienda aveva inizialmente deciso di utilizzare l’avermectina principalmente per le malattie psichiatriche. Fui io ad indicare loro che invece era più appropriato un uso in veterinaria». Un’indicazione di cui però non possono esserci prove. Ma è questa affermazione il vero punto della discordia.

Personalmente –e sentendo il parere di altri esperti- mi riesce difficile credere a questa versione. Il composto da lui isolato, come Gorio stesso scrive nel suo unico articolo scientifico dedicato all’avermectina, appartiene alla categoria dei macrolidi, composti già conosciuti all’epoca per la loro attività antibiotica e quindi già utilizzati in medicina veterinaria. Ecco perché pare abbastanza curioso il fatto che la Merck non avesse già fiutato la possibile applicazione anche in campo veterinario. Non solo, altrimenti perché si sarebbero rivolti proprio a Cerami che si occupava di parassiti del sangue? Infine se Gorio avesse intuito o creduto nella reale efficacia del composto da lui isolato, perché non ha continuato a studiare e a pubblicare su quella molecola, proprio come hanno fatto i due Nobel? Perché, sapendo della sua presunta indicazione rivoluzionaria, Gorio si accorge oggi della scoperta che ha fatto?

Con un solo studio sull’argomento e un’informazione non verificabile («fui io a suggerire l’utilizzo in veterinaria») pretendere il Nobel mi pare un po’ troppo. Nell’articolo che avrei voluto pubblicare si raccontava tutta questa storia. Un articolo equilibrato senza nessun vittimismo. Un racconto di quanto ci sia anche un po’ di Italia nel Nobel di quest’anno. Un pezzo che raccontava anche che Gorio è rientrato in Italia nel 1979 occupandosi di tutt’altra ricerca -occupandosi di medicina rigenerativa- quasi ignaro del contributo che oggi è valso il Nobel per la Medicina. Il pezzo però non vedrà più la luce in quanto non approvato dal professore perché a suo parere non corrisponde a verità.

Dal canto mio penso che il giornalista non sia un megafono, ha il dovere di “amare la verità più di sé stesso”. Sentita una campana deve cercare di verificare tutte le informazioni raccolte per capire se tutto ciò corrisponde o è un racconto parziale. E’ questo quel che ho imparato da questa vicenda e ringrazio Gabriele Beccaria per avermi insegnato come svolgere questo lavoro. Ecco perché ho rinunciato a pubblicare una “notizia sensazionale”. Semplicemente perché non lo è mai stata.

Aggiunto alle ore 15:22 del 28/10/2015: http://dna.kdna.ucla.edu/parasite_course-old/personal%20stories/ccwang/index.aspx

A questo link potete trovare il racconto di Wang, il microbiologo della Merck. Spiega dell’idea di usare l’avermectina in veterinaria e cita Gorio per quanto riguarda la caratterizzazione del meccanismo d’azione. Nulla più. Eppure nemmeno Wang ha vinto il Nobel.

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La vita (e la morte) di quel bambino non è stata vana

siriaAd inizio giugno La Stampa decise di pubblicare un reportage fotografico di Bulent Kilic, fotografo turco della AFP, per raccontare tutto il dramma umano della popolazione siriana che scappa dalla furia dell’ISIS tentando di entrare alla frontiera turca. Foto di forte impatto che non sono nulla rispetto a quella che stiamo vedendo in queste ore con il cadavere di un bambino siriano di due anni in riva al mare sulla spiaggia di Kos.

Una foto che è un pugno nello stomaco. Rimanere indifferenti è impossibile. Chi ha un figlio –magari proprio di quell’età- non può non vivere un profondo disagio osservando quell’immagine. Personalmente l’ho vista per la prima volta su twitter nel bel mezzo di una conferenza stampa -in un bellissimo hotel di Londra- su quali farmaci è meglio utilizzare nella prevenzione delle malattie cardiovascolari. Uno schiaffo. La vita di un bambino interrotta così precocemente nel tentativo di scappare dall’inferno alla ricerca di un luogo dove vivere in pace. Cosa resta ora di quel bambino?

Ai bollettini di guerra siamo tutti abituati. Così come siamo abituati al male. Il nostro cuore pare anestetizzato, incapace di sentire. Quando muore un bambino il primo pensiero è “perché? Perché proprio lui? Cosa ha fatto di male? Se un Dio c’è perché permette ciò?”. Tutte queste domande sono lecite, sono umane. Non capiremo mai fino in fondo se c’è una risposta. Eppure pensando a quel bambino mi sento di affermare che la sua vita –e la sua morte- non sono state vane.

Credo che quel bambino sia per tutti noi lo strumento che per almeno un attimo ci ha reso uomini. Ci ha riportato alla realtà, ha agito da antidoto alla durezza del nostro cuore che cerca sempre e solo una “tranquillità di facciata” e che fa finta di non vedere il dramma che milioni di persone stanno vivendo. Quelle persone che qualcuno crede possano rovinare il nostro già precario equilibrio.

Non so se tra qualche giorno tutto sarà come prima. Probabilmente, sommersi come siamo dalle informazioni, molti si saranno dimenticati. Altri invece se lo ricorderanno per sempre e dovranno dire grazie a quel bambino per averli fatti tornare uomini. Nei giorni scorsi ho assistito ad un incontro in cui un dottore ha detto che per essere dei grandi medici bisogna sapersi commuovere e condividere il dolore dell’altro. Ecco, il punto è proprio questo: a qualsiasi livello, dalla politica al più umile dei lavori, questa condizione è necessaria. Solo così riusciremo ad affrontare la vita. Solo con quello sguardo riusciremo ad affrontare umanamente le sfide che oggi ci troviamo davanti. La morte di quel bambino ha preso significato.

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Fare il giornalista (o corrispondente) oggi. Ecco come ti confeziono uno scoop

gender“Amare la verità più di se stessi”. Anni fa assistetti ad un incontro sul giornalismo che portava proprio questo titolo. Eviterò di dire dove e il nome dei relatori per non influenzare la lettura. Bene, da quel giorno ho pensato che quando sarei diventato giornalista quella frase mi avrebbe guidato. Pur con tutti i miei limiti cerco di farlo ma quando vedo che volutamente c’è chi cerca il contrario non posso evitare di sottolinearlo.

Mi spiego. Oggi c’è stata l’ennesima interpretazione di un messaggio privato del Papa. Senza farla troppo lunga il riassunto della vicenda è il seguente: Papa Francesco ha risposto (non lui, chi si occupa della comunicazione…) ad una lettera scritta dall’autrice di alcuni libri messi al bando dal comune di Venezia  in quanto giudicati inneggianti alla teoria gender. La scrittrice –senza postare il testo integrale della lettera- da felicemente notizia su Facebook dell’avvenuta risposta.

Subito la news rimbalza sui siti di molte testate (anche molto famose) e c’è chi si spinge addirittura ad affermare che il Papa avrebbe detto di “andare avanti” con questa attività. Proprio per il fatto che il pontefice si è già espresso duramente sulla questione “gender”, una notizia del genere sa tanto di bufala. La smentita arriva dalla Sala Stampa Vaticana con un comunicato (leggi qui).

Ciò che mi lascia davvero perplesso è il modo di operare di chi fa informazione. Uno si inventa totalmente delle dichiarazioni, gli altri a ruota copiano e incollano la notizia contribuendo alla sua diffusione. Dimenticavo: non si tratta della solita disputa “italiana”. La notizia è sbarcata anche sul The Guardian con un articolo a firma del proprio corrispondente. Già, figura magica quella del corrispondente… Oggi più che mai sembra che svolgere quel lavoro consista nel monitorare i siti di news del luogo per poi parafrasare gli articoli.

Ho chiesto all’autrice se avesse letto la nota della sala stampa. La risposta è stata disarmante: “la dichiarazione è stata pubblicata dopo il mio articolo”. Passano alcuni minuti e chiedo spiegazioni sul perché abbia scritto una notizia del genere. Risposta: “Il Guardian ha ricevuto la lettera direttamente da Pardi. Potresti scrivere al nostro giornale”. Un po’ contraddittorio… Replico: “ma tu l’hai letta visto che hai scritto l’articolo? C’è qualcosa che non torna. O nella nota vaticana o da voi”.

Sto aspettando risposta.

Avanti Savoia!

p.s inutile dire che la vicenda è una mera interpretazione di queste parole. Nella lettera, come precisa il comunicato, si legge: «Sua Santità, grato per il delicato gesto e per i sentimenti che lo hanno suggerito, auspica una sempre più proficua attività al servizio delle giovani generazioni e della diffusione degli autentici valori umani e cristiani». Sarebbe questo il sostegno alle attività editoriali dell’autrice?

p.p.s Aggiunta alle ore 17: L’articolo del Guardian non cambia il titolo ma scorrendolo si possono trovare 3 righe (a metà dell’articolo) in cui si cita la smentita vaticana. Proprio perché si tratta di una smentita ufficiale il pezzo si contraddice da solo. Ma si sa, ormai si leggono solo i titoli.