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Lotta al cancro: tutte le novità da #ASCO19

Non c’è miglior luogo che il congresso ASCO di Chicago per comprendere dove si dirige la lotta al cancro. Qui sotto, in aggiornamento costante, i miei articoli:

Tumore del polmone: oggi è sempre più curabile. Una rivoluzione chiamata immunoterapia (articolo per Fondazione Umberto Veronesi)

Tumore al seno metastatico: con la terapia target la sopravvivenza a tre anni passa dal 46 al 70%. Un risultato storico (articolo per Fondazione Umberto Veronesi)

“Preparare” il tumore per batterlo con l’immunoterapia (articolo per Fondazione Umberto Veronesi)

Cancro, cure e prevenzione: l’importanza del Sistema Sanitario Nazionale (articolo per Fondazione Umberto Veronesi)

Mamme dopo un tumore al seno: gravidanza sicura sia per la donna sia per il neonato. Anche nei casi BRCA mutati (articolo per Fondazione Umberto Veronesi)

I casi di polmone e seno: dai mix terapici la filosofia emergente della cronicizzazione (articolo per La Stampa)

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Caterina Morelli: la volontà di Dio rende tutto perfetto

Firenze, un sabato pomeriggio. Di fronte alla Basilica della SS. Annunziata è radunata una folla. La chiesa all’interno è gremita di gente. C’è chi passandoci di fronte arriva a chiedere alle persone in piazza se sono lì per un matrimonio. E’ difficile crederlo ma all’interno si sta svolgendo un funerale. L’ultimo saluto ad una giovane donna di 37 anni morta per un tumore. Un’atmosfera surreale per quello che dovrebbe essere il momento. Una circostanza che non può non suscitare domande. Come è possibile tutto ciò?

Caterina è una ragazza come tante. Medicina all’Università di Firenze, l’impegno nel CLU (il movimento degli universitari di CL), una bimba -Gaia- e l’unione in matrimonio con Jonata nel giugno 2012. Un percorso come tanti ragazzi della loro età sino a quando, pochi giorni dopo l’unione, arriva quella giornata destinata a cambiare per sempre la vita. Un giorno dove il bene e il male raggiungono il massimo della loro forza. La mattina la scoperta di un nuovo bambino in arrivo. Poche ore dopo la diagnosi di tumore al seno, una delle forme più aggressive.

I medici fiorentini inizialmente le propongono un’interruzione di gravidanza per poter intraprendere subito le cure. La paura è tanta. Caterina è medico è sa bene a cosa andrà incontro. Ma è proprio qui che la fede esplode in tutta la sua maturità. Caterina non è un’eroina. Caterina è una donna la cui fede illumina la ragione. Quella ragione che la porta a cercare di fare tutto il possibile per salvare il bimbo che ha in grembo e al contempo provare ad affrontare la malattia. Ed è così che grazie ad alcuni amici medici “Memores domini” sperimenta all’Istituto Europeo di Oncologia di Milano un approccio di cura che dopo l’intervento le consente di iniziare la chemio e, nel febbraio 2013 di dare alla luce Giacomo, per poi passare alle “maniere forti” con la malattia.

Dopo due anni, come spesso accade quando si è in presenza di tumori così aggressivi, il cancro si ripresenta con metastasi a fegato, ossa e cervello. La ricerca, che tanto ha fatto nella cura dei tumori, può garantirle ancora qualche anno di vita. Una situazione nella quale il sentimento di disperazione non può che essere il più umano. Eppure accade qualcosa. Un qualcosa che non è pianificato. Non è frutto di un bel discorso. Un qualcosa di umanamente inspiegabile e non sostenibile dalla sola nostra volontà.

Caterina ha paura, sa che dovrà lasciare i suoi due bambini e suo marito. A pensarci è straziante. Chissà quante volte avrà pensato “Questa sarà l’ultima vacanza. Chissà se ci sarà ancora un Natale insieme. L’ultimo compleanno di mio figlio”. Come diceva in uno dei suoi tanti incontri Don Vincent Nagle, prete della Fraternità San Carlo e cappellano della Fondazione Maddalena Grassi “L’angoscia è la percezione chiara e cosciente della morte senza una chiara visione del buon destino. Senza un motivo percepito come possibile di uno scopo. L’angoscia è umanamente insostenibile”.

A Caterina invece accade qualcosa. Ma questo “Qualcosa” non può essere un discorso, una serie di valori, una posizione ideologica. E’ la presenza di Dio verificata secondo quel che proprio don Vincent chiama “Ipotesi di valore”. Di fronte alla sofferenza Caterina non ha mai smesso di domandare al Signore: “Dove sei?”. “Fatti vedere!”. Ed è così che paradossalmente, nel momento che sulla carta è il peggiore della propria vita, Caterina diventa testimonianza per gli altri. Incontra vari senza tetto o senza lavoro e li ospita a pranzo o cena a casa sua, altri che hanno perduto la fede, in rapporto con lei e il marito, si riavvicinano alla preghiera e alla Chiesa. Lei che aveva bisogno diventa sostegno per gli altri.

A dicembre 2018 un nuovo peggioramento. L’ultimo della sua breve vita. In coma dal pomeriggio del 7 febbraio, attorno al suo letto per tutta la sera si accalcano gli amici che pregano e che cantano, insieme ai suoi bambini presenti, in un clima surreale di dolore e festa, come lei desiderava. Caterina muore nelle prime ore dell’8 febbraio.

Nella storia di Caterina non c’è nulla di programmato. C’è stato il suo sì, detto con dolore, all’inspiegabile volontà del Padre. Come disse don Vincent “Quando vediamo un Altro all’opera siamo noi che diventiamo più liberi, più certi. La fede non risolve i problemi ma permette di entrare nella vita con una ipotesi di valore che va verificata ogni giorno e permette una speranza e una bellezza sperimentate”. Quella bellezza sperimentata che ha portato i frati che frequentavano la sua casa ad affermare “qui c’è veramente un angolo di paradiso sulla terra”. Nessuno toglierà il dolore ai suoi bambini, al marito, ai genitori e agli amici. Ma dentro quell’inspiegabile dolore l’unica soluzione è affidarsi alla volontà di Dio, quella che rende tutto perfetto.

Daniele Banfi

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Melanoma e tumore al polmone: l’immunoterapia rivoluziona le cure

Anno 2008. Giuseppe ha 50 anni e tanto ancora da vivere. Il verdetto dell’oncologo però non lascia spazio alle interpretazioni: melanoma metastatico al quarto stadio, il peggiore tra i tumori della pelle. Con le terapie di quel tempo l’aspettativa di vita medita è di 6-9 mesi. Solo il 25% sopravvive ad un anno. La ricerca però da qualche tempo comincia a produrre nuove molecole, gli immunoterapici. Giuseppe entra in una sperimentazione e oggi, a dieci anni dalla diagnosi, è ancora qui. La malattia c’è ma è sotto controllo. «Situazioni come quella descritta –spiega Michele Maio, direttore del CIO (Centro di Immuno-Oncologia) presso l’Azienda Ospedaliera Universitaria Senese-  sono sempre più diffuse. Grazie all’immunoterapia oggi il cancro sta cominciano ad essere considerato una malattia cronica». I risultati presentati al congresso ASCO di quest’anno puntano tutti in questa direzione. Dopo il melanoma adesso è l’ora del tumore al polmone.

Stimolare il sistema immunitario

La svolta nel trattamento dei tumori da 10 anni a questa parte si chiama immunoterapia. L’idea è rivoluzionaria: se sino agli anni duemila l’obbiettivo era quello di sviluppare molecole dirette contro le cellule tumorali, ora nel mirino finiscono le cellule del sistema immunitario. L’idea di fondo alla base di questo approccio è sfruttare la capacità delle cellule che ci difendono di riconoscere la presenza del cancro. Per farlo i ricercatori hanno due modi: rimuovere il freno che spegne la risposta o spingere sull’acceleratore e stimolare i linfociti ad attaccare la malattia. «Se nei primi anni duemila tutto ciò era promessa –continua Maio- oggi la maggior parte dei nuovi farmaci in commercio hanno come target il sistema immunitario e l’immunoterapia rappresenta sempre più spesso la prima scelta per affrontare un tumore in metastasi».

Da mesi ad anni di vita guadagnati

I dati sulla sopravvivenza ad un melanoma a dieci anni di distanza parlano chiaro: con ipilimumab, il primo immunoterapico della storia, siamo a quota 20%, come il caso di Giuseppe. Un risultato straordinario se confrontato con l’aspettativa di vita media di 9 mesi con la sola chemioterapia. In questi dieci anni però la ricerca è andata avanti individuando nuovi meccanismi da sfruttare. Da qui sono nati, tra i tanti, nivolumab e pembrolizumab. Proprio su quest’ultimo ad ASCO sono stati presentati i primi dati di sopravvivenza a 5 anni dalla diagnosi: il 41% è vivo e nell’86% dei casi, dopo la sospensione del trattamento il sistema immunitario continua a tenere sotto controllo la malattia. «Questi risultati –spiega l’esperto- ci dicono che siamo sulla buona strada e che l’immunoterapia rappresenta l’approccio principale per affrontare il melanoma».

Tumore al polmone: copiare dal melanoma

Ma se l’immunoterapia ha rivoluzionato il trattamento di questo tumore, sempre più consistenti sono i risultati sulla bontà dell’approccio nella cura del cancro al polmone. Già da tempo anche nel nostro Paese pembrolizumab può essere utilizzato come prima scelta in alcune categorie di pazienti con carcinoma polmonare che esprimo elevati livelli della proteina PD-L1. Dagli studi presentati ad ASCO però emerge il dato che la molecola funziona anche per quelli con bassa espressione di PD-L1. Ma le novità non finisco qui perché per alcune tipologie di tumori  del polmone, il trattamento immunoterapico in combinazione con la chemioterapia determina un effetto sinergico attraverso il potenziamento della risposta immunitaria. I risultati sono ancora lontani da essere paragonabili a quelli raggiunti con il melanoma ma la strada appare simile.

Non solo immunoterapia

Accanto all’immunoterapia però guai a scordarsi delle terapie target. Al congresso ASCO sono stati presentati anche i dati relativi all’utilizzo di una molecola a target molecolare (alectinib) in grado di affrontare le metastasi cererbrali dei tumori al polmone ALK positivi, quello più diffuso tra i non fumatori. I risultati parziali dimostrano che la sopravvivenza libera da progressione con alectinib risulta triplicata rispetto a quanto accade con la terapia standard (34,8 mesi contro 10,9 mesi). Un risultato impensabile sino a poco fa.

Combinare più terapie

«Grazie alla ricerca oggi abbiamo a disposizione molte armi per controllare i tumori. Ora l’obbiettivo è riuscire a somministrare di volta in volta le giuste combinazioni tra immuniterapici, chemio e terapie target. Se eliminare del tutto il tumore non sempre è possibile, con ciò che abbiamo possiamo arrivare a rendere cronica la malattia. Il melanoma e il polmone ce lo stanno insegnando» conclude Maio. (articolo pubblicato su Tuttosalute de La Stampa, 19 giugno 2018)
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Sono 129 i valori del sangue alterati dal lavoro su turni

129. E’ il numero di proteine circolanti nel sangue i cui valori risultano anomali quando si lavora di notte. Alterazioni importanti che espongono la persona ad un aumentato rischio di sviluppare diabete e obesità. Ad affermarlo è uno studio pubblicato dalla rivista PNAS ad opera dei ricercatori della University of Colorado (Stati Uniti).

Cambiare orari altera l’espressione di 129 proteine

Per arrivare a questo risultato gli scienziati statunitensi hanno sottoposto sei giovani adulti ad una settimana di repentino cambio di “orari” quotidiani per simulare ciò che avviene quando si lavora su turni o si viaggia da un continente all’altro. La peculiarità dello studio però è stata quella di valutare ogni 4 ore, grazie ad un prelievo sanguigno, i livelli di oltre 1100 proteine la cui produzione è dipendente dai ritmi circadiani.

Dalle analisi è emerso che l’alterato ritmo sonno-veglia tipico di chi svolge un lavoro su turni porta ad un’anomalia dell’espressione di 129 proteine. Da un punto di vista temporale l’alterazione più evidente è quella dell’orario in cui vengono prodotte e secrete nel sangue. Ciò a cui hanno assistito i ricercatori è stata una completa inversione dei tempi di produzione. Le proteine che normalmente raggiungevano nelle ore diurne il picco massimo a livello plasmatico in realtà erano maggiormente secrete nella notte e viceversa.

Diabete e chili di troppo: ecco perché chi lavora su turni rischia di più

Tra queste ad essere alterata maggiormente è il glucagone, l’ormone prodotto dal pancreas per stimolare il rilascio di glucosio dalle cellule al circolo sanguigno. Quando i volontari restavano svegli la notte i livelli dell’ormone raggiungevano il picco massimo nelle ore notturne anziché diurne. Non solo, il picco è risultato mediante più alto della norma e questo –secondo i ricercatori- rappresenta la prova del perché i lavoratori che fanno turni la notte sono maggiormente predisposti a sviluppare il diabete.

Ma c’è di più: un’altra proteina ad essere particolarmente alterata dal “lavoro notturno” è FGF19. Diversi studi in modelli animali hanno mostrato che questo fattore di crescita è in grado di stimolare il consumo energetico e che dunque una sua maggior produzione è responsabile dell’aumentato consumo di calorie. Dalle analisi è emersa una minor produzione di FGF19 negli individui sottoposti al test. Un risultato in linea con il dato che vede una diminuzione del 10% circa di calorie consumate da chi lavora di notte rispetto a chi lavora seguendo il normale ritmo sonno-veglia.

“Le evidenze emerse da questo lavoro –spiega Kenneth Wright, direttore del Laboratorio Sonno e Cronobiologia della University of Colorado – suggeriscono che quando siamo soggetti a jet-lag o effettuiamo una turnazione lavorativa notturna di un paio di giorni, andiamo ad alterare molto rapidamente la nostra fisiologia in una maniera che, se persistente, può diventare dannosa per la salute”.

Il lavoro notturno è un fattore di rischio

Ma se lo studio dei ricercatori statunitensi è stato il primo ad indagare quali sono le principali anomalie nella produzione di proteine, che il lavoro su turni esponga ad un aumentato rischio di malattie è ormai cosa nota. Già dal 2007 l’International Agency for Research on Cancer (IARC) di Lione ha inserito il “lavoro su turni che comporta un’alterazione dei ritmi circadiani” fra i possibili fattori che agevolano lo sviluppo di alcune forme tumorali.

Non solo, in un imponente studio del 2015 –che ha coinvolto 75 mila infermiere osservate per 22 anni- pubblicato sull’American Journal of Preventive Medicine, è emerso che le donne che avevano lavorato con turni per un periodo dai 6 ai 14 anni, avevano un rischio di morte per malattie cardiovascolari maggiore del 19%. Rischio che arrivava al 23% per periodi lavorativi più lunghi di 15 anni.

Per minimizzare gli effetti di questa sorta di jet-lag esistono però alcuni piccoli accorgimenti: preferire rotazioni in senso orario piuttosto che antiorario, programmare turni il più possibile regolari e lasciare tra un turno e l’altro un tempo sufficiente al recupero delle ore di sonno e dalla fatica -evitando due turni nelle 24 ore- sono solo alcune delle strategie da adottare per ridurre l’impatto.

(Articolo originale pubblicato su La Stampa, 5 giugno 2018)

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Immunoterapia sempre più costosa anche quando funziona poco

Negli ultimi dieci anni, grazie all’avvento dell’immunoterapia, tumori che in passato non lasciavano scampo oggi possono essere affrontati con successo. Intendiamoci: di tumore si muore ancora ma grazie a queste molecole il cancro sta diventando una malattia cronica. Il problema però è il prezzo: i nuovi farmaci costano, e tanto. Non solo, il costo nel tempo è andato ad aumentare indipendentemente dal beneficio clinico. Ad affermarlo è uno studio da poco pubblicato dalla rivista Journal of Oncology Practice.

I costi non seguono una logica precisa

A lanciare l’allarme sull’andamento dei prezzi non sempre in linea con il reale valore del farmaco era stata, già nel 2016, un’analisi comparsa su JAMA Oncology. Lo studio analizzava l’andamento dei prezzi delle 51 molecole anticancro approvate dalla FDA –l’ente statunitense che regola l’immissione dei farmaci nel mercato- tra il 2009 e il 2013. Seppur riferita solo agli Stati Uniti, l’analisi affermava che il prezzo di queste molecole non correla né all’entità degli investimenti di ricerca -nessuna differenza tra innovativi e di successiva generazione- né all’efficacia terapeutica, né ai volumi di impiego. Ora l’ultimo studio pubblicato non fa altro che ribadire il concetto.

Efficacia e costi non vanno di pari passo

«La situazione –spiega il dottor Giordano Beretta, responsabile dell’Oncologia medica dell’ospedale Humanitas Gavazzeni e presidente eletto dell’Associazione Italiana di Oncologia Medica (AIOM)- non è di certo una novità. Possiamo affermarlo chiaramente: oggi il costo di diversi antitumorali non è il linea con la loro efficacia. Ciò non significa che usiamo molecole che non funzionano, tutt’altro. I nuovi farmaci hanno portato a grandi risultati ma il loro costo è sproporzionato rispetto al beneficio clinico aggiuntivo di ciò che già c’era in commercio».

Non sempre sappiamo chi risponderà ai farmaci

Per rendere l’idea l’assistenza complessiva (farmaci e non solo) a un malato di cancro costa intorno ai 40 mila euro l’anno che, con gli immunoterapici, raggiunge e supera i 100 mila euro. Di ricette per contenere i costi ce ne sono diverse ma uno dei punti su cui agire è l’appropriatezza nella prescrizione dei farmaci. «Oggi –spiega Beretta- abbiamo a disposizione degli immunoterapici che hanno cambiato la storia di molti tumori. Il punto è che queste molecole non funzionano in tutti i malati. Allo stato attuale delle conoscenze però non abbiamo a disposizione dei criteri specifici – i cosiddetti fattori predittivi- per individuare i pazienti ideali che risponderanno ad una determinata terapia».

Investire in test predittivi

Ma è proprio questo il punto cruciale. Selezionare solo chi risponderà –ad oggi si calcola che l’immunoterapia funzioni nel 30-40% dei pazienti- è di fondamentale importanza non solo per il malato ma anche per tutto il sistema. In questo modo è possibile curare meglio, risparmiando.  «Per riuscire ad arrivare a prescrivere in maniera mirata è fondamentale investire maggiormente in ricerca. Tutti gli sforzi si stanno dirigendo in questa direzione, ovvero mettere a punto strumenti in grado di identificare se un malato risponderà o meno ad una determinata terapia. In quest’ottica però molto devono fare le aziende farmaceutiche. Ecco perché una delle possibili soluzioni future è che in fase di registrazione del farmaco venga chiesto a chi produce la molecola di indicare nel tempo le caratteristiche del paziente che risponderà al trattamento. Un vincolo in grado di stimolare ad investire ancor di più sulla ricerca dei marcatori predittivi di risposta» conclude Beretta.

(articolo tratto da La Stampa, 17 maggio 2018)

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Riviste scientifiche: abbiamo un problema. Il caso di Lars Andersson e il vaccino HPV

Il vaccino per l’HPV potrebbe aumentare il rischio di sviluppare il cancro della cervice uterina. Esattamente il contrario di ciò che dovrebbe avvenire. E’ questa la conclusione tranciante di Lars Andersson, ricercatore del Karolinska Institutet di Stoccolma, pubblicata dalla rivista Indian Journal Medical Ethics. Peccato però che il ricercatore in questione sia un fantasma (e il messaggio una bufala). Il prestigioso istituto svedese ha smentito categoricamente di avere in organico -e nemmeno in passato- tale Lars Andersson. Ma andiamo con ordine:

STUDIO RIVOLUZIONARIO FIRMATO DA UN SOLO SCIENZIATO

Sul finire del mese di aprile la sconosciuta rivista Indian Journal Medical Ethics pubblica un articolo che non mette in dubbio solamente l’efficacia del vaccino HPV bensì afferma che il vaccino stesso causerebbe il cancro. A firmare la rivoluzionaria scoperta tramite una lettera all’editore -e qui sorge il primo dubbio– non è un nutrito gruppo di scienziati bensì un uomo solo al comando, Lars Andersson del Karolinska Institutet di Stoccolma. Come ogni buon articolo scientifico che si rispetti c’è tanto di indirizzo mail dell’autore. Mail (secondo dubbio) che non ha nulla di istituzionale ma è una generica lars.andersson2@outlook.com.

ANDERSSON NON ESISTE

Qualche giorno dopo la pubblicazione -vista la portata del messaggio- qualcuno a Stoccolma si accorge di essere citato a sproposito. Dopo una rapida indagine interna il Karolinska pubblica un comunicato in cui afferma che nel proprio organico non c’è e non vi è mai stato il signor Lars Andersson (a onor del vero c’è un omonimo che non si occupa di vaccini. Ma Lars Andersson in Svezia è come Giuseppe Rossi in Italia…). Oltre a prendere posizione l’accademia svedese chiede alla “rivista” di eliminare immediatamente quell’affiliazione. L’Indian Journal Medical Ethics recepisce il messaggio ed elimina il riferimento all’istituto svedese e spiega in una nota che il ricercatore ha richiesto l’utilizzo di uno pseudonimo (terzo dubbio… lo pseudonimo nella scienza non l’ho mai visto) per salvaguardare la propria incolumità. Intanto lo studio comincia a girare nei vari siti no-vax –qui un articolo in italiano pubblicato da “Renovatio21” e l’ennesima frittata è fatta.

Quanto alle conclusioni del paper c’è poco da dire. Ovviamente il vaccino per l’HPV previene il cancro della cervice. I dati, parzialmente omessi ed interpretati a piacimento del fantasma Andersson, dicono esattamente il contrario e l’aumento nell’incidenza del tumore del collo dell’utero nel tempo è frutto di un’aumento delle donne che si sottopongono agli screening.

UN RICERCATORE RECIDIVO

Ma la storia non finisce qui perché il fantasma Lars Andersson non è nuovo a questo genere di pseudo-ricerche. L’anno è il 2016 ma la dinamica è la stessa. Questa volta è il Journal of Internal Medicine a pubblicare -sempre a solo nome di Andersson, con l’affiliazione del Karolinska e con la classica mail (passata, a questo punto, inosservata)- uno “studio” in cui si afferma che il vaccino antinfluenzale Pandemrix causerebbe il diabete di tipo 1. Nel 2017 invece Andersson segnala l’incongruenza di alcuni risultati circa un’indagine norvegese che aveva lo scopo di valutare la presunta -ma smentita dallo studio- associazione tra vaccino HPV e sviluppo della sindrome da fatica cronica e l’encefalomielite mialgica.

LA RESPONSABILITA’ DELLE RIVISTE SCIENTIFICHE

E’ evidente che in tutta questa vicenda la pessima figura è innanzitutto a carico di quelle riviste che dovrebbero occuparsi di valutare ciò che viene loro proposto. La facilità con cui un illustre sconosciuto -in nome di un’ideologia e non in nome della scienza- sia riuscito ad ottenere una pubblicazione deve farci riflettere seriamente sulle dinamiche che sottendono all’invio, alla valutazione e alla pubblicazione di un paper scientifico.

Ad aggiungere caos al caos ci sono poi le finte riviste scientifiche o quelle disposte a pubblicare tutto dietro pagamento (qui il racconto che feci su La Stampa della pubblicazioni di articoli scientifici realizzati con un generatore automatico di testo). Ma questa è un’altra storia.

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Metodo Simoncini, Butac e una censura al contrario

Nelle scorse settimane uno dei siti che più si batte nel cercare di smontare le bufale (www.butac.it) è stato posto sotto sequestro per alcuni giorni. Tutto è partito da una querela relativa ad un articolo pubblicato nel 2015 in cui veniva criticato l’operato di un oncologo. Al di là del caso specifico –in passato le querele avevano portato all’obbligo di rimozione di contenuti ma non al sequestro dell’intero sito- quanto deciso dalla procura di Bologna è manna dal cielo per chi di bufale vive sfruttando la disperazione delle persone.

Guardate cosa scrive il sito degli “amici del dottor Simoncini”:

Era ora! Finalmente la Procura della Repubblica di Bologna lo ha messo sotto sequestro! Butac, il sito che si definiva anti bufala, che sparava addosso a tutto e a tutti, soprattutto ai medici alternativi, questa volta ha sparato alla persona sbagliata, visto che ha preso di mira l’oncologo brindisino Claudio Pagliara, che non ci ha pensato su due volte a (sì, è scritto così, ndr) ha querelato i titolari. Ora è finalmente chiuso!

E ancora…

Speriamo che questa esperienza serva da lezione anche ai gestori di altri siti che vivono “diffamando” medici alternativi, rei di aver capito del fallimento della medicina ufficiale e di cercare alternative per salvare la vita dei propri pazienti.

Già, proprio quelle cure alternative per salvare la vita dei propri pazienti. Peccato perché con quelle “cure” in realtà la si perde, la vita. Il dottor Simoncini dovrebbe saperlo bene: radiato già da diversi tempo, ad inizio di quest’anno è stato condannato a 5 anni e 6 mesi di carcere per aver sottoposto (in Albania) un ragazzo di Catania affetto da un tumore cerebrale alla sua pseudo-cura a base di bicarbonato di sodio. Iniezioni che hanno portato al decesso del giovane.

Eppure i fans del dottor Simoncini continuano a pontificare sul web e senza censura la bontà del metodo. Per il dottore e i suoi fedelissimi l’utilizzo del bicarbonato di sodio quale agente in grado di eliminare le cellule tumorali nasce dall’idea totalmente infondata che il cancro non è che il fungo Candida albicans. Ecco perché secondo Simoncini basterebbe del semplice bicarbonato per fare scomparire la massa.

La mia idea –scrive- è che essi (i tumori, ndr) non dipendano da misteriose cause genetiche, immunologiche, auto immunologiche, come propone la medicina ufficiale, fatti mai dimostrati, ma che piuttosto derivino da una semplice aggressione fungina, non visualizzata, né studiata nella sua dimensione intima connettivale. Durante i molti anni in cui ho studiato i tumori, cioè le atipiche colonie fungine, ho potuto constatare che l’unico mezzo per distruggerle ed impedire che si rinnovino, consiste nel somministrare forti concentrazioni di sali, in particolare modo Bicarbonato di Sodio, da far assumere in maniera peculiare rispetto alla sede del cancro.

Eppure, nonostante l’infondatezza di queste dichiarazioni, i siti che propongono questi “rimedi” continuano ad essere visibili. Segnalarli è il minimo che possiamo fare consci però del fatto che non è solo attraverso la rimozione dei contenuti che si affrontano questi problemi. Sono due le vie che abbiamo per contrastare il fenomeno dei venditori di fumo della salute.

Da un lato occorre seriamente investire in un’informazione giornalistica di qualità nel campo della salute. Informazione fatta con rigore e competenza e non finalizzata alle sole logiche commerciali relative al traffico da generare. Ancora oggi infatti capita che le grandi testate diano spazio a contenuti alquanto discutibili ma di sicura lettura. Dall’altro –ed è questo il vero punto- c’è la sfida educativa. Bisognerebbe sin da piccoli –e qui la scuola ha un ruolo centrale- stimolare i ragazzi al senso critico. Investire sempre di più in cultura della scienza. Un processo lento ma probabilmente il più potente.

p.s di cancro si muore ancora. Nessuno ha la bacchetta magica. A differenza però di chi vende false speranze basate sul nulla, oggi la scienza ci dice che sempre più persone –grazie alla ricerca e alla creazione di farmaci sempre più precisi- guariscono o convivono con la malattia. Di persone che a distanza di anni dalla diagnosi di tumore sono qui a raccontare la loro storia ce ne sono moltissime. Le possiamo incontrare tutti i giorni per la strada. E di quelle con il bicarbonato?

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Trenord è l’uso sconsiderato dei social network

Il primo pensiero sul deragliamento del treno a Pioltello non può che andare alle vittime, ai feriti e alle loro famiglie. A bocce ferme però, oltre alle doverose analisi sulle cause, bisognerebbe cercare anche di discutere del cattivo gusto della comunicazione della tragedia da parte dell’azienda Trenord. Intendiamoci: il post è per le persone che si occupano di questo campo! Tutto nasce dal tweet partito dal profilo ufficiale della linea Novara-Milano-Treviglio

https://twitter.com/TRENORD_miVC/status/956423658867699712

Un deragliamento con morti e feriti non si può definire “inconveniente tecnico“. Oltre ad essere di pessimo gusto il tweet è delle 8:09, un’ora dopo il disastro, quando già TUTTI i mezzi di informazione parlavano della vicenda con tanto di immagini.

Trenord, a bordo dei propri mezzi, invita i pendolari a rimanere sempre aggiornati tramite i canali Twitter dedicati alle varie linee, con l’App ufficiale e tramite il sito. Eppure i canali Twitter sembrano il deserto. Sulla mia direttrice, la Novara-Saronno-Milano compaiono 3 tweet da ottobre ad oggi. Eppure i social -e in particolare Twitter- sono uno strumento fondamentale per la comunicazione e in particolare per le situazioni di emergenza. Un mezzo immediato per cercare di capire, ancor prima dei siti di informazione, cosa sta accadendo.

Chi si occupa di comunicazione sa bene quanto sia fondamentale la “crisis management“, la gestione della crisi.  Oggi aziende e istituzioni non possono prescindere dall’integrare queste piattaforme social nelle proprie strategie di comunicazione. Per Trenord questo è sicuramente l’ultimo dei problemi. Allora un consiglio: se non si è in grado di gestire un account social meglio non averlo. Risvegliarsi dal torpore con un tweet (in ritardo di un’ora) utilizzando anche un linguaggio discutibile è lo specchio della non gestione dell’azienda. Probabilmente chi ha realizzato il tweet non sapeva minimamente come comportarsi per assenza di una linea da parte di Trenord.

p.s non venitemi a dire che è una strategia di comunicazione per evitare la folla di “curiosi” sul luogo dell’incidente. Il flusso di notizie non lo si può arginare.

p.s 2: come scritto all’inizio il post è per chi si occupa di comunicazione. Lo dico per prevenire i commenti tipo “in questo momento non facciamo polemiche inutili”. 

 

 

 

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Infezioni in gravidanza: e se fosse il magnesio a salvarci da autismo e malattie del neurosviluppo?

Gli americani li chiamano “Winter Babies”, i bambini concepiti durante il periodo invernale. Per loro diversi studi epidemiologici indicano che le probabilità di andare incontro nel tempo allo sviluppo di alcune patologie è più elevata rispetto a quelli concepiti nel periodo estivo. In particolare la correlazione riguarda malattie del neurosviluppo, come l’autismo, e i difetti di apprendimento. Il legame, per anni sconosciuto, sembrerebbe dipendere anche dal sistema immunitario ed in particolare dall’infiammazione che si genera nella madre in seguito ad importanti infezioni durante la gravidanza. Ad aggiungere un tassello a questo complicato mosaico ci ha pensato il gruppo di ricerca della professoressa Michela Matteoli, docente di Humanitas University, direttore dell’Istituto di Neuroscienze del Cnr e del Neuro Center all’ospedale Humanitas. A loro va il merito di aver scoperto il meccanismo molecolare attraverso il quale l’infiammazione porta ad un alterato sviluppo cerebrale. Ma c’è di più: lo studio –condotto per ora in modello animale- ha inoltre identificato nei sali di magnesio una potenziale soluzione per annullare l’effetto deleterio dell’infiammazione. I risultati sono stati pubblicati dalla rivista Biological Psychiatry.

I danni dell’infiammazione a livello fetale

«Molti disordini neurologici e psichiatrici –spiega l’esperta- possono essere considerati delle sinaptopatie, ovvero malattie dovute a disturbi delle sinapsi, le giunzioni attraverso le quali i neuroni comunicano tra loro. Per anni gli studi si sono concentrati sugli attori di queste anomalie sinaptiche. Nel tempo per queste patologie sono state individuate diverse proteine che, se mutate o espresse in maniera anomala, compromettono la corretta funzionalità delle sinapsi». Ciò che però sino a poco fa è rimasto un mistero è il motivo di questa alterata funzionalità in assenza di difetti genetici. Oggi i dubbi cominciano a diradarsi poiché diversi studi indicano chiaramente che il sistema immunitario è uno dei fattori in grado di condizionare lo sviluppo del cervello.

«L’associazione tra le infezioni materne durante la gravidanza e difetti del neurosviluppo del nascituro –spiega Matteoli- è ormai un dato noto da tempo. Nel nostro studio abbiamo voluto spingerci oltre e indagare in che modo l’infiammazione, che è la prima conseguenza di un’infezione,  è capace di alterare a livello molecolare le proteine implicate nella funzione del neurone e della sinapsi al fine di individuare possibili obiettivi terapeutici». Per farlo gli scienziati di Humanitas e del CNR hanno indotto, utilizzando un agente che mima un’infezione virale, uno stato infiammatorio in animali da laboratorio, in una finestra temporale precoce della gravidanza, sovrapponibile a quella del primo trimestre di gravidanza nelle donne.

Dalle analisi è emerso –come era lecito aspettarsi- che una singola attivazione del sistema immunitario materno nelle prime fasi della gravidanza rendeva la prole più suscettibile all’insorgenza di problemi di neurosviluppo, tra cui comportamenti di tipo autistico e epilessia. «La vera novità –spiega l’esperta- è l’aver individuato che questo difetto è dovuto principalmente ad uno sbilanciamento dell’espressione di due proteine, Nkcc1 e Kcc2. Sbilanciamento causato dall’aumento di citochine infiammatorie che avviene nel cervello fetale in seguito all’infezione materna».

Prevenzione con i sali di magnesio

In particolare questa anomalia, come dimostrato nello studio, impedisce al neurotrasmettitore “Gaba” di acquisire la sua fisiologica azione inibitoria. Il risultato è una eccessiva eccitazione neuronale capace di generare anomalie nella funzione del sistema nervoso. Lo studio però non si limita a questa osservazione ma apre la strada ad una possibile soluzione. Nella ricerca infatti è stato testato il ruolo del magnesio solfato. «Da tempo –prosegue l’esperta- sappiamo che questo sale può agire riducendo lo stato infiammatorio. Partendo da questa osservazione abbiamo provato a somministrarlo alle topoline gravide prima dell’induzione dell’infezione. Dagli esperimenti abbiamo osservato che il pre-trattamento della madre era in grado di bloccare –in seguito ad infezione- la produzione delle citochine infiammatorie nel cervello fetale. Blocco che ha avuto come effetto diretto la prevenzione del danno cerebrale».

Un risultato, seppur ottenuto in modello animale, che aggiunge un tassello importante nella comprensione di queste malattie. Il prossimo passo sarà quello di indagare il possibile ruolo preventivo degli integratori a base di magnesio somministrati in donne nel primo trimestre di gravidanza. Attenzione però a conclusioni affrettate: «contrarre un’influenza in gravidanza non significa necessariamente che il bambino rischierà di andare incontro allo sviluppo di queste patologie. Nei modelli animali e negli studi epidemiologici si è visto che ciò si verifica quando l’infiammazione è importante, come nel caso di una malattia che richiede un ricovero ospedaliero. Detto ciò se i risultati ottenuti nelle donne confermassero quanto abbiamo osservato negli animali da laboratorio saremo di fronte ad una svolta importante in termini di prevenzione. Il magnesio, somministrato nel periodo giusto, all’inizio della gravidanza, potrebbe essere la chiave per prevenire i danni di un’infezione materna, riducendo possibili effetti deleteri sullo sviluppo cerebrale del nascituro» conclude Matteoli.

(Daniele Banfi, articolo pubblicato su La Stampa di mercoledì 3 gennaio 2018)

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L’omeopatia non è una cura. Punto. Con buona pace di Boiron

L’omeopatia non è un approccio terapeutico validato scientificamente. L’articolo si potrebbe concludere qui. Decido invece di continuare a scrivere perché questa volta ci è scappato il morto. Si tratta di un bambino di 6 anni deceduto per le complicanze di un’otite non curata per giorni, nemmeno -così dicono- con una tachipirina.

ACQUA ZUCCHERATA

Mettiamo subito le cose in chiaro: di otite si guarisce perfettamente e il caso del piccolo rappresenta un’eccezione. Caso che però, se trattato adeguatamente con una terapia antibiotica, poteva essere facilmente superato. La sua “colpa” è stata quella di fidarsi del “medico pediatra” di turno grande fan dell’acqua zuccherata. Perché è di questo che si tratta. Il vero problema però è che di “medici” e “farmacisti” che consigliano prodotti omeopatici -non li chiamo farmaci volutamente- ce ne sono parecchi.

OMEOPATIA EFFICACE QUANTO UN PLACEBO

Il meccanismo con cui si propaga il verbo dell’omeopatia è molto semplice. “La figlia della mia amica ha risolto così”. “Dite quello che volete ma su di me ha funzionato”. “In fondo male non fa, perché non provare?”. Frasi tutte potenzialmente vere che non tengono però conto di un dato fondamentale: la scienza non procede per aneddoti. Ad ogni affermazione deve seguire un dato che ne dimostri la veridicità.

Ad oggi non esiste alcuna prova che l’omeopatia agisca più di quando lo faccia un placebo. Non si tratta di una crociata di Big Pharma contro i buoni. E’ che proprio dentro quei flaconi, con questa storia delle diluizioni, spesso non c’è la minima traccia del “principio attivo”. “Ma c’è la memoria dell’acqua!”, qualcuno potrà obiettare. No, la memoria dell’acqua non esiste altrimenti, tutte le volte che beviamo qualcosa ci porteremmo dietro di tutto. Attenzione però a fare di tutte le erbe un fascio. Oggi, prodotti di derivazione vegetale usati in farmacologia, ce ne sono parecchi. Ma qui siamo di fronte alla fitoterapia, una scienza a tutti gli effetti che nulla ha a che vedere con l’omeopatia.

CORRELAZIONE NON SIGNIFICA CAUSA

Se qualcuno afferma che con l’omeopatia è guarito dal mal di denti o dall’otite è semplicemente perché il corpo -macchina meravigliosa- cerca di riportare tutto all’equilibrio. Così chi ha bevuto il prodotto sarà convinto di aver risolto grazie ad esso ma il problema in tutta probabilità si sarebbe risolto comunque. Se volessimo ragionare “per assurdo”, qualsiasi cosa di diverso dalla normale routine io abbia fatto quel giorno potrebbe essere considerata cura. Basta questo per dimostrare il legame causa-effetto? Decisamente troppo poco.

FARE IL GIORNALISTA IMPLICA FILTRARE LE NOTIZIE

Un altro errore è considerare l’omeopatia una “cura complementare”. Non lo è affatto per gli stessi motivi del perché non è una cura. Ma è proprio sulle “cure complementari” che si gioca la partita. Diffidare sempre da chi afferma “credo nella medicina, però…”. Oggi Corriere della Sera ha deciso -sciaguratamente, a commento della vicenda del bimbo morto- di ospitare un’intervista a Boiron, proprietario dell’omonimo impero che commercializza prodotti omeopatici. Nel pezzo a firma della giornalista Elvira Serra Boiron afferma “prendo antibiotici e li do anche ai miei figli” a riprova che lui non è contrario ai farmaci. Nell’articolo però -senza un minimo di senso critico- snocciola inesattezze su inesattezze con l’obiettivo di “rigirare la frittata”. “E’ importante scegliere un buon medico”, “l’omeopatia è complementare alle altre cure”, “L’omeopatia è frutto di ricerca farmacologica” e “quante persone muoiono dopo aver assunto un farmaco?” sono solo alcune delle assurdità. Credo che il compito del giornalista sia la ricerca della verità e offrire al lettore gli strumenti per farsi un’opinione. Corriere oggi ha perso una grande occasione. Costava troppo affiancare alle dichiarazioni di Boiron un articolo sull’infondatezza scientifica dell’omeopatia? Fare il giornalista significa selezionare e filtrare le informazioni. Capacità sempre più rara nell’era del giornalismo copia e incolla.

Intanto però, mentre l’industria farmaceutica per immettere sul mercato un farmaco ha bisogno di “tonnellate” di prove, un prodotto omeopatico può sbarcare sul bancone senza grandi controlli. In fondo sul flacone c’è scritto “senza indicazioni terapeutiche approvate”. Ma forse a Boiron va bene così altrimenti -a dover produrre prove- non gli rimarrebbe che il mercato della vendita delle acque minerali.