Vino contraffatto: un test italiano per identificarlo

Da un mio articolo su ilsussidiario.net (link all’articolo originale)

Il residuo che si forma sul fondo delle bottiglie di vino non sembra piacere ai consumatori. Per questa ragione i grandi produttori vinicoli hanno da tempo trovato il modo per eliminare il problema. Il processo adottato viene tecnicamente definito con il termine di “chiarificazione”. Le sostanze che vengono utilizzate maggiormente a tale scopo sono la caseina, per quanto riguarda i vini bianchi e l’ovalbumina per i vini rossi.

I chiarificanti addizionati al vino, causando la formazione di un precipitato gelatinoso, sono in grado di catturare tutte quelle proteine presenti in sospensione nella bottiglia che vengono poi successivamente eliminate per filtrazione.

Circa la chiarificazione, una normativa della Comunità Europea impone dalla scorsa estate che su ogni etichetta venga indicato se il vino è stato oggetto di un trattamento artificiale e, in caso affermativo, che sia segnalata la quantità di residuo presente all’interno della bottiglia. Questo perché caseina e ovalbumina, proteine che derivano rispettivamente da latte e uova, sono sostanze potenzialmente allergeniche.

L’esame di laboratorio che attualmente viene adottato dall’Unione Europea per stabilire la quantità di agenti chiarificanti è il test ELISA (Enzyme-Linked ImmunoSorbent Assay, cioè dosaggio immuno-assorbente legato a un enzima). Esso è in grado di rilevare quantità sino ai 200 microgrammi per litro di bevanda. Il test però potrebbe essere sostituito a breve da una nuova tecnica messa a punto in un progetto, finanziato dalla Fondazione Cariplo, dal gruppo di ricerca del professor Pier Giorgio Righetti del Dipartimento di Chimica, Materiali e Ingegneria Chimica “G. Natta” presso il Politecnico di Milano.

La metodica, chiamata CPLL (Librerie Combinatoriali di Ligandi Peptidici), è in grado di rilevare quantità prossime a 1 microgrammo per litro di vino, ben 200 volte inferiori al test in uso attualmente. I risultati delle analisi sono stati pubblicati dalla rivista Journal of Proteomics.

«Analizzando diversi vini bianchi e rossi abbiamo riscontrato residui compresi tra i 20 e gli 80 microgrammi. Quantità che di certo non causano shock anafilattici ma che possono essere causa di malesseri di varia natura. Vini, che secondo quanto dichiarato dai produttori, non dovrebbero contenere tracce di sostanze chiarificanti poiché eliminate attraverso il processo di filtrazione» dichiara il professor Righetti.

La tecnica sviluppata consiste nella preparazione di piccole sfere contenenti sulla superficie dei peptidi lunghi sei residui amino-acidici. Queste, poste nel liquido da analizzare, fungono da esca alle proteine presenti nel liquido. Ciò permette di catturare tutte le proteine in sospensione  e di calcolarne l’esatta quantità.

Oltre ad aver individuato minime tracce di agenti chiarificanti, l’analisi del gruppo milanese effettuata su alcuni vini rossi dell’annata 2009 ha permesso di riscontrare anche delle tracce di proteine provenienti da funghi patogeni. «La tecnica da noi sviluppata rappresenta dunque un’arma in più per il consumatore. Spero che le associazioni di settore e la Comunità Europea, venendo a conoscenza della nuova metodologia d’indagine, possano tenerne conto per analisi future volte a tutelare la salute del consumatore» conclude Righetti.

2 pensieri su “Vino contraffatto: un test italiano per identificarlo

  1. Ritengo l’uso del termine “contraffazione” non appropriato al caso di specie. Basterebbe in realtà che il singolo produttore segnali in etichetta il residuo di agenti chiarificanti sfuggiti alla filtrazione e non individuati dal test Elisa. In questo modo tutto sarebbe regolare. Tanto più ciò varrebbe, quando a questo test se ne sostituisca un altro più preciso.

    1. Hai perfettamente ragione sull’uso improprio del termine “contraffazione”. Purtroppo il giornalista non ha il potere di fare i titoli. Quello originale da me proposto era “vino addizionato: un test italiano per identificarlo”. La questione è che per rendere più interessante il pezzo, il titolista a volte non tiene conto del contenuto dell’articolo. A maggior ragione se è un pezzo per il web, dove per apparire meglio piazzati nei motori di ricerca si utilizzano particolari termini di uso comune.
      Daniele Banfi

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